Parte Terza 03
Capitolo Tredici 13:
Muna aveva iniziato gli studi universitari alla Facoltà di Lettere dell’Università di Damasco, iscritta ufficialmente al corso di Lingua araba, quello a cui la sua anima aveva sempre aspirato in segreto. Solo più tardi confessò a sé stessa di aver finalmente trovato, nella lingua, una madre e una patria interiori che nessuno avrebbe potuto toccare.
Nei primi giorni di lezione, ogni visita di Numan al loro appartamento le confermava quanto quel giovane, nonostante i tratti timidi e rurali che ancora si notavano nei suoi gesti, custodisse nel petto un cuore ardente di conoscenza, un amore per i libri e la scrittura che raramente aveva visto in qualcuno.
Lo incoraggiava sempre, ricordandogli, ogni volta che si sedevano insieme nell’angolo della stanza che amavano, di coltivare il suo talento non in modo casuale, ma con metodo accademico, degno di una vocazione che cresceva in silenzio e aspettava chi sapesse ascoltarla.
Una sera, dopo aver appena terminato una telefonata di lavoro con Beirut, il signor Ahmed lanciò uno sguardo a Numan e gli disse, con voce che mescolava serietà e speranza:
— «Perché non ti iscrivi a un corso intensivo di disegno tecnico? Ti riporterebbe un po’ del tuo vecchio sogno e allo stesso tempo potrebbe aiutarmi nel lavoro.»
Muna e Numan si scambiarono uno sguardo rapido, carico di comprensione silenziosa. Poi Muna commentò, sfogliando tra le mani il suo quaderno universitario:
— «Davvero, sarebbe fantastico. L’ingegneria non contraddice la letteratura, anzi: sono gemelle, complementari l’una all’altra.»
Da quel giorno, quasi non passava un giorno senza che Numan facesse visita al loro appartamento, che il signor Ahmed fosse presente o in Libano a seguire i suoi affari dal suo ufficio privato, uno spazio che aveva dedicato a laboratorio dei suoi sogni ingegneristici e rifugio quando il mondo fuori sembrava opprimente.
La zia di Muna, che viveva con loro, creava il clima perfetto per quegli incontri: con la sua presenza discreta e il sorriso costante, rendeva le visite di Numan naturali e tranquille, senza suscitare domande o sospetti. Quegli incontri divennero parte integrante della nuova vita familiare, un filo invisibile che legava le giornate con armonia e calore.
E così, i loro giorni si intrecciavano lentamente, tra i fogli dell’università, i progetti da pianificare e il suono delle penne che tracciavano sogni tra libri e righe di matita.
Capitolo Quattordici 14:
Dopo una lunga serata di conversazioni con Muna e suo padre, protrattasi fino a poco prima dell’alba, ognuno era andato nella propria stanza a dormire. Ma per Numan il sonno era impossibile. Uscì a camminare per le strade silenziose, senza sapere dove andare, finché si trovò davanti alla prima corriera mattutina diretta al suo paese.
Salì a bordo, non per fuggire da Damasco, ma alla ricerca di una terra che potesse riformare le radici dentro di lui, non i muri; e di risposte rimaste sospese, che continuavano a girargli nella mente senza mai completarsi.
La notte, con tutto ciò che conteneva, era ormai finita da poco, ma lui non riusciva a prendere sonno: domande e risposte dialogavano dentro di lui, nel nucleo stesso della sua coscienza, non come un retaggio imposto, ma come un pensiero libero che confrontava l’ignoto. E nel sistema politico e sociale, non c’erano realtà imposte, ma vincoli che si insinuavano verso significato, libertà e destino, spingendo al contempo verso paura e riverenza.
La casa era ancora immersa nel sonno quando giunse alla porta esterna, composta da due ante che si aprivano e chiudevano con leggerezza, senza bisogno di chiavi. Lì, davanti al gradino, si stendeva, come sempre, la cagnetta nera.
Era stata allevata da lui fin da piccola, lo seguiva nei campi, si intrufolava dietro di lui a scuola, e il suo nome era ormai indissolubilmente legato al suo. Cresciuta con lui, aveva praticamente attraversato con lui il tempo, tra i sentieri di campagna e dietro i muri di casa. Una volta si era ammalata gravemente, e tutti avevano temuto per lei. Numan aveva curato il suo cibo personalmente, preparandole pane intinto in decotto di semi di lino. Eppure, pochi giorni dopo, era tornata a camminare, sfuggendo alla morte con pazienza, come se avesse voluto aspettarlo.
E ora, dopo la sua assenza, lo precedeva col naso all’aria, come a captare un’ombra di arrivo. Non abbaiava, non ansimava: si fermò davanti a lui, posando la testa sulle sue ginocchia, come se stesse accogliendo una patria smarrita.
Numan si avventurò nel cortile della casa in cemento, quasi a scusarsi con i suoi alberi secolari per il ritardo al sorgere del giorno. Le foglie degli ulivi erano bagnate di rugiada, pendenti come le dita di sua nonna, e parevano indicare il cielo con silenziosa reverenza.
La casa gli sembrava la stessa di quando l’aveva lasciata l’ultima volta; eppure, la percepiva più piccola, come se il tempo ne avesse bevuto un anno o più, lasciandola incompleta di qualche nostalgia.
Si avvicinò al lavandino nel cortile e si lavò mani e viso. Non sapeva che sua madre lo stava osservando da vicino, dalla finestra della stanza del forno, avvolta nel suo scialle di lana, mentre preparava qualcosa sul fuoco lento. Quando lo vide fermo a compiere le abluzioni, non disse subito nulla. Lo osservò a lungo, con uno sguardo che era quasi un abbraccio.
Appena terminò, parlò a voce bassa, come se parlasse a se stessa:
— Buongiorno, figliolo.
Si voltò verso di lei, sorpreso dalla sua presenza così presto, e rispose:
— Buongiorno, mamma.
— Pensavo che non saresti tornato quest’inverno.
Si avvicinò, le baciò la mano con reverenza e si lasciò avvolgere dal suo abbraccio pieno di affetto, poi chiese permesso:
— Voglio pregare l’alba prima che sorga il sole, poi tornerò.
Dopo aver compiuto la preghiera nella piccola nicchia che aveva sempre usato nella sua stanza, tornò con passi tranquilli a sedersi accanto a lei. Sembrava un bambino tornato da un lungo stupore, e poi disse, fissandone i lineamenti che conosceva meglio di se stesso:
— Mi sei mancata, mamma… sì, quanto mi sei mancata! …
La tua calma… il tuo risveglio prima di tutti… persino il tuo silenzio… mi è mancato tutto in questa casa.
Lei scorse attentamente il suo volto. Era più quieto, ma quello scintillio che da sempre brillava nei suoi occhi si era leggermente affievolito. Versò il tè e rimase a osservarlo in silenzio.
Dopo qualche sorso, ruppe il silenzio con una domanda che sembrava sospesa da un anno:
— Non dicevi che volevi entrare alla Facoltà di Ingegneria? Volevi diventare un ingegnere, costruire case per i poveri e creare bellezza nei loro spazi. Che cosa è successo?
Esitò, fissando a lungo il vapore che saliva dalla tazza, poi disse a bassa voce:
— Non ho cambiato il mio sogno… solo… l’ho cercato in un altro luogo. Un luogo che si chiama “Facoltà di Lettere”!
Sorrise, come se insieme ammettesse e giustificasse la scelta:
— Volevo capire le storie, mamma, prima di iniziare a decorarne le mura.
Lei tacque un attimo, come se stesse ruminando il senso delle sue parole, poi sussurrò, senza nascondere l’ansia materna nella voce:
— Le storie non danno da mangiare, né costruiscono case, figlio mio.
Abbassò la testa per un istante, poi la sollevò, dicendo:
— Né gli edifici, mamma… se sono senza anima.
Lo osservò a lungo, poi sorrise e scosse la testa con un misto di stupore e soddisfazione:
— Le tue parole ti somigliano… non si comprendono al primo ascolto.
Rise e parlò a bassa voce, con un timbro che sembrava una piccola confessione:
— E io… ormai non lo capisco più, e nessuno mi capisce, qui, se non qui.
Lei sorrise, poi allungò la mano e gli accarezzò la spalla con un affetto puro, simile a una preghiera materna:
— L’importante è sapere dove cammini, anche se cammini da solo.
In quel momento, Numan sentì che la casa si era improvvisamente allargata, e che il tempo, nonostante la sua consueta frenesia, si era seduto accanto a loro, chinando rispettoso il capo.
Il cinguettio degli uccelli fuori non era solo un fruscio, ma un coro intero di ali e suoni ascendenti, come se i rami stessi cantassero con voce verde di vita.
Tornò nella sua stanza e si distese sul letto di legno, fissando a lungo il soffitto di argilla, che, nella sua semplicità, conservava un calore che nessuna città rumorosa avrebbe potuto eguagliare.
Quella mattina era una di quelle rare mattine in cui nulla veniva chiesto e nulla era atteso. Era solo un mattino aperto al ricordo.
Dopo qualche momento di riposo, scese di nuovo nel cortile, cercando sua madre. La trovò vicino al forno, a sistemare la legna e preparare l’impasto.
Prese un pezzo di legna e lo osservò come se fosse un piccolo ricordo, con gli occhi semichiusi che ascoltavano un richiamo lontano e non detto.
— Ancora cucini in questo forno? — chiese, guardandola mentre lo preparava.
Lei rispose senza voltarsi, come se avesse già sentito la sua voce prima che parlasse:
— Non troverai mai in nessun forno un pane simile a quello di tua madre… Ricorda i tuoi giorni, Numan, quando mi precedevi al mattino, preparavi la legna e accendevi il fuoco fino a farlo diventare brace, e poi stavi accanto a me con le tue piccole mani a lavorare l’impasto.
Rise e si avvicinò a lei leggero, come un ragazzo tornato al suo vecchio gioco:
— E lo faccio ancora, mamma! Se vuoi, oggi posso farlo per te… riposati tu.
Lei rise, sollevando con gesto leggero l’impasto lievitato, e disse con tono scherzoso che custodiva mille ricordi:
— E chi mi garantisce che non spargerai la farina sui vestiti, come facevi da piccolo insistendo a impastare con le mani fragili?
— Allora stavo imparando… — rispose, allungando la mano verso la legna con sicurezza infantile e matura insieme — ora sono padrone nel fare il fuoco e signore delle braci.
Si scambiarono uno sguardo caldo e giocoso, poi si sedette accanto al forno a osservare le fiamme salire lentamente, con negli occhi una nostalgia che non si era affievolita, come se volesse recuperare, dentro di sé, quei giorni passati leggeri e senza chiedere permesso.
Nella sua voce c’era il desiderio di restare, anche se non lo diceva, e nei suoi gesti una volontà nascosta di appartenenza… come se la città non lo avesse mai accolto davvero, o gli avesse offerto solo un frastuono che ancora non comprendeva.
La brace nel forno iniziava a crepitare bene, e l’odore del pane si mescolava al calore dell’impasto e alla freschezza della prima mattina, riempiendo tutto lo spazio di un profumo che solo la memoria e la nostalgia possono ricreare.
Quando prese tra le mani una pagnotta calda e iniziò a mangiarne lentamente, lei lo guardò strizzandogli l’occhio, metà scherzo e metà speranza:
— Resterai con noi questa settimana? Oppure Damasco non permette a nessuno di allungare l’assenza?
Esitò un attimo, poi rispose:
— Rimarrò… finché posso. E poi… chissà? Forse un giorno tornerò definitivamente.
La osservò con un leggero stupore, mentre il suo sguardo vagava lontano, verso un luogo che solo il suo cuore poteva vedere, e disse con voce che sembrava uscire da un pozzo antico:
— Non tornare… se qui non hai un sogno. La nostalgia da sola non costruisce una vita, Numan.
Tra loro regnava un silenzio sottile, non il silenzio fugace, ma quello che sussurra nei cuori senza bisogno di parole.
Tutto nel cortile sembrava in armonia: l’odore della terra bagnata si mescolava a quello del pane che saliva dal forno, il mormorio sommesso di sua madre che recitava una vecchia preghiera… e cose che solo in quella casa, in quel cortile, in quella sicurezza, potevano avere senso.
Quando il calore del pane riempì il suo petto e una rara pace lo avvolse, qualcosa che non aveva mai conosciuto in città, Numan tornò nella sua stanza. Nel cuore portava quel calore e una serenità segreta. Si tolse il cappotto di lana con un gesto lento, come se stesse spogliandosi del tempo, della nostalgia e dei giorni accumulati sulle spalle, poi si sedette sul letto di legno e lasciò che la mano scorresse sul lenzuolo ricamato con vecchi fiori, quello che sua madre aveva cucito per lui nel suo primo anno all’università.
Si distese, chiuse gli occhi, ma il sonno non venne. Qualcosa dentro di lui restava sveglio, pulsante sotto la pelle, come un vecchio sogno che si muoveva irrequieto nel silenzio e bussava alle porte della memoria con delicatezza, ma con insistenza.
C’era qualcosa dentro che continuava a svegliarlo…
Come se un sogno addormentato sotto la sua pelle avesse cominciato a muoversi, bussando senza chiedere permesso.
«Stavo fuggendo quando ho scelto le lettere invece delle arti… oppure stavo cercando la mia voce nei testi e non nei colori?»
Sussurrò la domanda a voce alta, mentre gli occhi fissavano il soffitto di legno della stanza, in cui si intravedevano sottili crepe, come vene profonde nel corpo di una casa antica.
Credeva che allontanarsi dal frastuono della città gli avrebbe portato chiarezza… ma invece, la lontananza continuava a interrogarlo.
Si ricordò della prima aula di disegno… dell’odore inebriante dei colori e di come le sue capacità motorie lo tradissero quando doveva spiegare la sua idea di luce e ombra.
Si rammentò del suo imbarazzo davanti alla commissione di ammissione, che aveva apprezzato il suo disegno a matita, ma quando gli fu chiesto di tradurlo in una scena reale, applicandolo concretamente, la studentessa esperta suggerita dalla commissione dovette interpretare la sua opera per dare vita alla scena…
Quando la compagna iniziò a prepararsi per realizzare ciò che lui aveva immaginato, e cominciò a spogliarsi di alcuni vestiti sul palco, Numan si congelò. Sentì le mani tremare e il corpo pronto a tradirlo se si fosse avvicinato, figuriamoci toccarla, e la lingua si ritraeva… un imbarazzo insopportabile lo travolse. Con una scusa improvvisa legata a un dolore allo stomaco, lasciò la sala prima che il suo timore diventasse una catastrofe.
Forse… non era una fuga dal sogno, ma dall’imbarazzo, si giustificò, o dalla propria incapacità che temeva potesse essere interpretata come fallimento.
E allora, perché aveva accettato dopo il suggerimento di Muna, quando gli disse, con calma, dopo la lunga conversazione che seguirono:
«Forse ora non hai bisogno dei colori… forse hai bisogno dei testi, dove puoi dire tutto senza dover guardare nessuno.»
Ma…
bastano le parole a ricucire ciò che è dentro?
Basta leggere la vita senza viverla fino in fondo, senza dipingerla, senza attraversarla davvero?
Finalmente si sedette. Tirò fuori dalla borsa un piccolo taccuino, dall’aspetto semplice, compatto: lì aveva iniziato a annotare i suoi primi pensieri, fin dal primo anno all’università.
Sfogliò le pagine lentamente, poi si fermò su una riga scritta con una grafia incerta, una sera di qualche tempo prima:
• «La città mi tenta, ma non mi riconosce. La campagna mi capisce, ma non può prendermi intero.»
Chiuse il taccuino con delicatezza e mormorò a voce quasi impercettibile, come se parlasse solo a se stesso:
• «Devo scrivere questo capitolo della mia vita con le mie mani… non lasciarlo scritto dagli altri.»
Là fuori, sua madre aveva finito di preparare il pane, si era lavata le mani e si era seduta sotto il melograno, asciugandosi la fronte con l’orlo del suo scialle, aspettando che suo figlio scendesse di nuovo.
Ma lui rimase lassù…
come se fosse sospeso in un altrove distante, un residuo antico che sfogliava la propria vita come pagine di un romanzo scritto di fretta.
Laggiù…
suo padre si era appena svegliato, la voce forte e tonante che si levava con un richiamo gentile:
• «Numan! Figlio mio… la colazione è pronta.»
Sedette con la famiglia a tavola, girando tra le mani un pane caldo, attendendo che il figlio si unisse a lui, come se tra loro ci fosse una promessa rimandata di un anno intero. Ma era giunto il momento di ricordargliela?
Forse solo adesso… cominciavano i veri capitoli.
Numan scese con passi pesanti, come se portasse sulle spalle il peso di un sogno incompiuto.
Salutò con voce bassa, baciò la mano del padre secondo l’usanza, poi si sedette a tavola.
Non disse una parola.
Era come se avesse bocca e appetito, ma nessuna lingua con cui parlare.
Intorno a lui, la famiglia parlava con naturalezza: domande sul suo ritorno, su come stesse, sui piccoli fatti della vita quotidiana… Ma lui non ascoltava, non rispondeva. Altri discorsi si intrecciavano: sul cibo, su una parente che aveva avuto un bambino, sui problemi della scuola… Numan era lì, corpo senza anima, assaporando i bocconi ma distante dal loro significato.
Sua sorella lo guardò di sfuggita e sussurrò:
• «Oggi Numan è diverso… c’è qualcosa di diverso in lui.»
Non commentò. Quando finì di mangiare, si asciugò le mani e si scusò a voce bassa:
• «Scusate… devo tornare in stanza.»
Si alzò di scatto e tornò nel suo mondo lontano, come se inseguisse qualcosa che gli era sfuggito.
Lì, nella sua stanza, si sedette sul bordo del letto, fissando il muro, mormorando come se stesse interrogando la propria memoria:
• «Davvero stavo fuggendo quando ho scelto Lettere invece delle Belle Arti? Cercavo la mia voce tra le righe, e non tra i colori? Fuggivo… o cercavo uno spazio dove non tremare, dove non vergognarmi davanti agli altri?»
Quando il suo respiro si fermò, il silenzio riempì la stanza, ma dentro di lui c’era un tumulto insopportabile.
La voce di Muna tornò a lui, come se venisse riprodotta da un nastro conservato nel profondo di un sonno mai avuto:
• «Non sei scappato dall’arte, Numan… sei fuggito dal tuo corpo.»
Scosse la testa, come se la vedesse lì, nell’angolo, dirglielo con occhi che non ammettevano compromessi.
• «Non ero pronto…», sussurrò dentro di sé,
• «Non sapevo come mettere il mio corpo al centro del significato… Disegnavo perché amavo le fratture della luce, non per stare davanti a qualcuno che vedesse la mia sconfitta.»
E udì di nuovo la sua voce… quella sfumatura che non gli lasciava scampo quando cercava di sottrarsi:
• «Ma hai disegnato in bianco e nero ciò che nessun poeta avrebbe potuto dire… perché non sei rimasto lì?»
• «Perché il dipinto da solo non protegge chi lo crea…» rispose dentro di sé, «e io avevo bisogno di un muro che coprisse la mia paura.»
Si appoggiò al muro e chiuse gli occhi.
• «Tutto può diventare arte…» mormorò, «anche il silenzio… se scritto con sincerità.»
Aprì gli occhi sul soffitto della stanza, fatto di terra battuta, e notò piccole crepe, come vene di memoria antica aperte dall’assenza. Il silenzio si allungò, poi inspirò lentamente, come se stesse testando la nota di una decisione che non riusciva a rendere completa.
Forse, in quel momento, era iniziata la sua prima fuga dal sogno. Non dal sogno stesso, ma dall’imbarazzo. Dalla paura di mostrare la propria incapacità in un mondo che pretende dal corpo di parlare come fa il pennello. Quel giorno, aveva ascoltato il suggerimento di Muna di iscriversi alla Facoltà di Lettere, dove le parole potevano fare ciò che il corpo non riusciva a fare.
E tornò con la memoria a quel momento: quando entrò nella sala di ammissione alle Belle Arti, portando il suo quadro con il cuore in tumulto, l’odore oleoso dei colori che lo ubriacava come la pioggia che riporta alla mente l’infanzia. Si ricordò come, davanti alla commissione, balbettò, fissando la compagna che lo avrebbe aiutato nella simulazione, i suoi occhi, i lineamenti scoperti, una spalla nuda… forse… e sentì paura.
Muna gli aveva detto, mentre camminavano per le strade della città:
• «Bastava guardare il quadro, non il corpo della ragazza. Perché hai confuso l’idea con ciò che lei mostrava?»
E lui, imbarazzato:
• «Perché non sapevo ancora come scomporre la bellezza senza smarrirmi davanti ad essa.»
Lei aveva riso amaramente:
• «E le parole sono più misericordiose? Anche le poesie non sono corpi?»
Annui allora, come adesso:
• «Forse ho scelto Lettere perché non mi spoglia come fanno i colori. Qui mi nascondo dietro le parole e riorganizzo la mia delusione in una riga, non nel tremore della mano.»
Muna disse, con l’aria fredda di quella notte:
• «Ma la vera letteratura non ti lascerà rifugiarti tra le righe. Ti chiederà di togliere la maschera. Di scrivere te stesso, non di nasconderti dietro.»
• «E io? Sono pronto per questo?» si domandò dentro di sé, la domanda sospesa nella stanza come la luce fioca negli angoli.
• «E le parole basteranno a riparare l’interno?» sussurrò Numan, questa volta ad alta voce.
Come se la risposta fosse sempre stata lì, negli occhi di Muna, che gli dicevano:
• «L’interno non si ripara solo con le parole, ma con la verità. Scrivi, Numan… ma non mentire!»
Rimase disteso sul letto di legno, come se l’aria gli sfiorasse la fronte con una carezza leggera, mentre il petto gli si stringeva, come se la stanza si riducesse e il soffitto gli cadesse addosso ogni volta che affondava nei ricordi.
• «Non ero malato, Muna… mentivo solo per fuggire. Il mio corpo non mi ubbidiva… né il mio sguardo mi perdonava.»
E sentì la sua voce, viva nella mente, con quella sfumatura capace di scavare sotto la superficie delle parole:
• «Sai qual è il tuo problema? Non è la paura. È che non eri pronto a vedere la bellezza in un corpo vivo senza essere turbato.»
Tacque a lungo, poi le rispose nel segreto del suo cuore, come se fosse lì accanto, o a volte alla porta chiusa della stanza che gli bloccava tutte le finestre:
• «Non sapevo come guardare senza smarrirmi. Indossava un maglione di cotone stretto e pantaloni che mostravano più dettagli di quanto potessi sopportare. Non sono riuscito a vedere “la forma” come avrei dovuto nel mio quadro… Ho visto la donna e ho perso la capacità di adattare quel corpo, o di adattarlo a quel quadro che avevo dipinto.»
• «Ma era una compagna, Numan. Non si era spogliata davvero. Sei stato tu a spogliarla nella tua immaginazione.»
• «Lo so… ma non credo che tu possa capirmi. Perché l’immaginazione non si doma sempre. E io non ho ancora imparato a gestire il mio impulso. È come vedere la realtà nuda all’improvviso, e io ero colui che l’aveva dipinta e che conosceva la sua essenza.»
• «Quindi, se ti fosse stato chiesto di dipingere una donna nuda come nelle altre lezioni di Belle Arti, saresti fuggito verso la finestra più vicina?»
• «Forse… o… non lo so. Ma in quel momento mi sentivo troppo piccolo davanti all’idea di rappresentare il linguaggio del corpo. E come se il quadro fosse più grande di me, e la compagna più della forma e delle linee.»
Rimase in silenzio per un momento, poi mormorò tra sé:
• «Avevo paura di agire e contraddire le mie convinzioni, e se non avessi agito… non sapevo cosa sarebbe successo. Cosa avrebbero pensato di me? O forse avrei solo messo in mostra la mia ignoranza.»
La voce di Muna tornò nella sua mente, come un sorriso malizioso:
• «Quindi hai scelto la letteratura perché puoi vestire il corpo con la metafora?»
• «Non del tutto… almeno in parte sì… o perché la parola nasconde più di quanto mostra. Oppure mostra ciò che scelgo io, non ciò che mi è imposto.»
• «Quale parte rispondeva sì, allora?»
• «Il tuo incoraggiamento e il tuo sostegno in questo campo.»
• «E quale parte rispondeva no?»
• «La mia ignoranza delle regole della lingua.»
• «Eppure i tuoi voti alle superiori ti hanno permesso di entrare nel Dipartimento di Arabo. Com’è possibile?»
La porta si aprì leggermente e suo padre entrò, con tono sorpreso e concitato:
• «Perché non sei rimasto con noi? Io, tua madre e i tuoi fratelli ti abbiamo tanto mancato! Sto andando al lavoro ora, ma ne parleremo stasera… Se hai bisogno di qualcosa, vieni al negozio!»
Prima di uscire aggiunse:
• «Tuo nonno ti aspetta nel giardino. Vuole vederti e parlare con te, e con lui c’è il nostro vicino. Non farli aspettare, anche loro sentono la tua mancanza… Pace!» E chiuse la porta con delicatezza.
Il sole d’inverno si era inclinato verso sud dopo ore dal sorgere, e i suoi raggi caldi accarezzavano il grande giardino della casa di nonno Abu Mahmoud, scivolando tra i rami di noci e albicocchi antichi come un velo di seta pallida. Le brezze giocavano con le foglie rimaste, facendole oscillare come ricordi che non volevano andar via. Solo l’olivo secolare restava maestoso, custodendo le sue foglie come un vecchio custodisce la propria dignità.
In un angolo modesto, Numan sedeva appoggiato a un cuscino di paglia, osservando la luce cadere sulla mano del nonno, che sistemava il rosario dopo che un nodo si era sciolto, come cercando di ricomporre un ordine antico.
Accanto a lui, il vicino Abu Rashid sedeva su una sedia di legno, appoggiando la mano su un bastone sottile, ascoltando in silenzio, come chi aspetta ciò che verrà dopo il silenzio del vento.
Il nonno Abu Mahmoud, fissando Numan con uno sguardo che mescolava stupore e cautela, parlò con voce lenta, come se scavasse nel cuore del tempo:
• «Figlio mio… ti abbiamo lasciato la strada per leggere e imparare, e grazie a Dio, oggi ti vedo uomo. È tempo che ti parli come si parla tra uomini, anche se, Dio sa, non sono abituato a queste parole né con i miei figli né con nessun altro. Tra noi si diceva: fai o non fare… questo è ciò che abbiamo ereditato e su cui abbiamo cresciuto.
E tu… tu sai quanto ti voglio bene, quanto gioivo quando da piccolo mi leggevo, e come il mio cuore si apriva a ogni lettera che pronunciavi. Ma non te l’ho mai mostrato, affinché tu non ti montassi la testa, affinché non aspirassi troppo.
Ma ciò che ho sentito ultimamente mi ha turbato… Si dice che stai con le ragazze nei giardini, che leggi libri strani, e che affermi: la città ti ha insegnato la luce. Che luce è questa, Numan, che ti allontana da noi, persino da tua madre? Non è la modestia, come dice il nostro Profeta, una parte della fede? E dov’è la tua modestia?»
Numan abbassò il capo, lentamente, come chi cerca parole che non trova. Poi parlò a voce bassa, spezzando il petto in un filo di suono:
• «Non è estraneità, nonno… sto solo cercando di essere un buon figlio. Cerco di capire chi sono tra voi e quel mondo in cui vivo.»
Il vicino, Abu Rashid, si mosse leggermente, sorridendo appena, come chi ha ritrovato un segreto nascosto tra le righe della conversazione. Poi disse, con negli occhi una scintilla di comprensione antica:
• «Anch’io ho sentito, amico… ma credo che Numan non voglia mai tagliare le sue radici. Sta solo cercando un colore speciale per la sua ombra. Non ricordi come dice il poeta: “Chi non ama salire le montagne… passerà la vita tra le fosse”?»
Fece una pausa, poi continuò con voce ferma e penetrante:
• «I tempi sono cambiati, Abu Mahmoud… noi vedevamo le donne come ombre intoccabili, ma Allah ha detto: ‘Tra i Suoi segni, Egli ha creato per voi compagne affinché possiate trovare pace in loro’… e la pace, amico mio, non viene con la paura, ma con la condivisione.»
Il nonno scosse lentamente la testa, gli occhi persi tra le ombre dei ricordi:
• «Ai nostri tempi era tutto semplice, Abu Rashid… nessuna domanda, nessun volto da interrogare, nessuna voce con cui discutere. Stiamo zitti di fronte agli anziani, e parliamo solo se ci viene chiesto… e questo è il senso del detto: ‘Dalla buona fede di un uomo, il lasciare ciò che non lo riguarda.’»
Come se un argine si fosse rotto dentro Numan, alzò il capo e parlò con voce piena di tutto ciò che aveva taciuto per anni:
• «Eppure continuo a credere in quei limiti, nonno… ma voi avevate paura di tutto per me: della malattia, della scuola, del contatto con la società, persino delle donne… come se uno sguardo limpido di una ragazza significasse tradimento dei valori o inciampo sul cammino. Sentivo tutto questo e non riuscivo a chiamarlo con un nome.»
Il nonno lo guardò, non interrogando ma rimproverando, con voce intrisa di dolore e rabbia:
• «E con tutta la nostra paura e premura, tu vai a scegliere una professione così strana per noi, strana persino nella sua natura e nella natura di chi la pratica: la carpenteria del cemento! Che mestiere è questo che non ti somiglia, e non somiglia a nessuno della tua famiglia? Dici di amare la lettura, e impari dalle discussioni dei libri per discutere su cose che non ti riguardano, entrando in una prigione… e quale prigione! La prigione politica! E dopo tutto ciò, mi dici che credi ancora in quei limiti?! Che fede è quella che ti spinge a questi risultati? È così che si forgia la fede nel fuoco del dolore? Oppure la punizione è la via alla certezza? O dai gradini freddi delle prigioni si costruiscono le convinzioni? O ti affidi alla ferita per trovare la strada? O ormai vedi la perdita come percorso?»
Numan rimase in silenzio per un istante, come assaporando le parole del nonno come un’amarezza antica, poi rispose con voce calma, non in tono di discussione ma di riflessione e spiegazione:
• «Nonno, non è né l’uno né l’altro! Non cerco ciò che vi somiglia, né ciò che somiglia a me nel passato. Cerco ciò che mi somiglia in ciò che voglio diventare. La carpenteria del cemento può sembrare strana, ma per me era un modo rapido per guadagnare, un mezzo per sostenere gli studi… e tu lo sai bene! Quanto alla lettura, non era per discutere, ma per capire. Non sono entrato in prigione per scelta, ma perché, ai nostri tempi, la verità era diventata un crimine. Non credo in quei limiti posti sul nostro cammino come pietre da tracciare sulla terra, ma per vincolare le persone, per farle fuggire nel silenzio e nella paura. Io credo in quei limiti come segni creati da Dio per unirci, proteggerci, e insegnarci libertà e dignità. E se il prezzo di questa fede è alto, è comunque meno di quanto meritino le anime vive.»
«Non dico di avere sempre ragione, nonno, ma non riesco a vivere secondo ciò in cui non credo…»
Respirò a fondo e aggiunse, come chi crolla finalmente:
• «All’università, nonno, li vedo ridere, guardare partite, discutere di canzoni e gare… e io? Io sto in piedi da solo… penso a cose che non li divertono, che non li attirano… A volte li invidio, altre li prendo in giro, ma nel profondo del mio cuore so che preferiscono l’indifferenza piuttosto che riflettere sul senso della giustizia… o su chi soffre, su chi è tormentato, su un mondo che mi somiglia… o che temo di diventare.»
Gli occhi di Abu Rashid brillarono di una delicatezza segreta, e con voce calma disse:
• «Non è colpa tua, Numan… siamo cresciuti tutti nell’ombra di una paura che scorre nelle vene. Temiamo i nostri desideri, temiamo di ridere dal cuore per non attirare gli sguardi invidiosi o le brame di chi ci osserva. E dopo ogni risata, diciamo: “Dio, proteggici dal male della nostra gioia”. Così, figliolo, abbiamo temuto di essere sinceri con noi stessi.»
Il nonno, Abu Mahmoud, borbottò con un certo disagio e colpì il bastone a terra, come per spazzare via la polvere delle parole dai suoi orecchi, poi disse con voce mista a rabbia:
• «Ma la religione ci insegna l’halal e l’haram, non questa confusione nei cuori e nelle menti. Il Messaggero disse: ‘L’halal è chiaro, l’haram è chiaro’.»
Seguì un breve silenzio. Numan si voltò verso il nonno, con uno sguardo che tradiva un dolore profondo, e parlò a voce bassa, ma vibrante:
• «Sai, nonno… pensavo che la preghiera sarebbe stata sufficiente a calmare il cuore. Eppure, il mio cuore prega cinque volte al giorno, e resta turbato. Amo Dio, Lo temo, ma non sento che Egli mi ami, e tremo davanti a Lui come davanti a un’autorità tiranna… Non ha detto nel Suo Libro:
“Dì: O miei servi che avete trasgredito contro voi stessi, non disperate della misericordia di Allah”?
Perché allora non sento questa misericordia?»
Abu Rashid respirò profondamente, come chi richiama alla memoria scene lontane, e disse con voce calda:
• «Hai ragione, Numan… queste domande ci hanno fatto crescere prima del tempo. Sono rimaste a ribollire dentro di noi, senza silenzio né risposta. Non lo ricordi, amico?»
Si avvicinò all’orecchio di Abu Mahmoud e sussurrò, come rivelando un antico segreto:
• «Perfino i desideri che temevamo di confessare facevano parte della nostra umanità.»
Poi sollevò il volto, strizzò l’occhio a Numan e disse con un sorriso furbo:
• «Non hai sentito della Rabi’a al-Adawiyya? Quando disse: ‘Ti amo in due modi: per passione, e perché tu sei degno di ciò’… Amore è corpo e spirito insieme.»
Numan trattenne il respiro per un attimo, poi si riprese e parlò con voce che squarciava il silenzio:
• «Non voi, non noi, non siamo la causa della crisi, nonno… voi, noi e generazioni intere abbiamo portato nei nostri petti una paura ereditata.»
Indicò con la mano come a raccogliere un ricordo lontano e parlò a voce crescente:
• «Quella paura è stata disegnata da alcuni… hanno ritratto Dio come un dio occupato solo a punire, ad affliggere la gente all’inferno, con castighi e sanzioni. Poi è venuta un’autorità che voleva assicurarsi il consenso di tutti, anche a costo della fuga nel silenzio, o dell’occupazione con un pezzo di pane, affinché nessuno avesse tempo di sognare la libertà con cui era stato creato, né di usare la mente con cui Allah lo ha onorato.»
Fece una pausa breve, poi continuò con tono fermo:
• «Non si può essere veramente musulmani finché non si crede in ciò che Allah ci ha donato, nei diritti che ci ha concesso. Bisogna sfruttare questi diritti per pensare, domandare, comprendere. Non avete letto nella Sura al-Isra, versetto 70:
“Abbiamo certamente onorato i figli di Adamo”?
Questo versetto pone l’onore prima della paura, e fa della dignità la base dell’uomo, non l’umiliazione né la sottomissione a un Dio sempre arrabbiato… Dio, nella nostra religione, è misericordioso, generoso, e onora l’uomo.»
Numan continuò a parlare, con una voce intrisa di fede sofferente, e negli occhi gli brillava il fuoco delle domande a lungo represse:
• «Non ha detto Allah, glorificato sia, nella Sura Al-Baqara, versetto 256:
“Non c’è costrizione nella religione; la retta via si distingue dall’errore”?
Come possiamo allora incutere timore nei cuori in nome della religione? E chiudere le porte della mente? Questo versetto afferma la libertà nella fede, non la impone, ma indica al viaggiatore la via della rettitudine, lasciandogli la scelta del cammino.»
Tutti abbassarono lo sguardo, come se le sue parole avessero tolto un velo da significati nascosti. Numan proseguì con calma, ma con il peso doloroso delle esperienze:
• «E nella Sura Al-Anfal, versetto 22, Allah dice:
“Il peggiore degli animali, agli occhi di Allah, è il sordo e il muto che non ragionano”.
Un chiaro avvertimento per chi blocca il dono della ragione e segue ciò che non comprende, per paura o per imitazione. Non è forse questo ciò che facevamo?»
Abu Rashid scosse lentamente la testa, come ammettendo una colpa antica, poi sospirò:
• «Sì… pregavamo, lodavamo, piangevamo al ricordo del castigo, ma raramente sorridevamo per la Sua misericordia. Come se Lo temessimo più di quanto Lo amassimo.»
Numan lo guardò con compassione e disse:
• «Nel Suo Libro, glorificato sia, è scritto anche nella Sura An-Nisa, versetto 58:
“Allah vi comanda di rendere i depositi a chi ne ha diritto e di giudicare con giustizia tra la gente.”
Dopo questo, cosa c’è di più chiaro? La chiave del giudizio è la giustizia, non la paura. Il potere è un deposito, non una tirannia.»
Il nonno, Abu Mahmoud, ascoltava attentamente, e il suo volto si addolcì, come se una roccia si fosse fessurata dentro di lui.
Mentre il silenzio avvolgeva la stanza come una nuvola estiva, fermando il vento e immobilizzando le foglie nel cortile, Abu Rashid mormorò tra sé, più interrogandosi che parlando agli altri:
• «…Amavamo davvero Allah? O Lo temevamo soltanto?»
Poi si fermò un istante, aggiungendo con respiro lungo e pesante:
• «Tremavo ogni volta che sentivo parlare del castigo, e piangevo. Ma quando leggevo della Sua misericordia, non sorridevo… e qui sta la differenza.»
Chiese il permesso di allontanarsi, avendo udito la voce del figlio chiamarlo dall’altro lato del muro.
Abu Mahmoud si inchinò leggermente, appoggiando le mani al tronco dell’ulivo, poi alzò lentamente lo sguardo, gli occhi persi in uno spazio lontano:
• «Forse abbiamo dimenticato che l’amore non si contrappone alla paura, ma la equilibra… chi ama sinceramente non teme come chi fugge, ma teme come chi teme di ferire chi ama.»
Si avvicinò la nonna, Umm Mahmoud, che aveva ascoltato il dialogo dalla finestra della sua stanza, e sedette accanto al marito, sussurrando con lacrime sottili negli occhi:
• «È la prima volta che sento parlare della religione in questo modo… non come minaccia per noi bambini.»
Numan annuì e rispose:
• «Per questo dicevo: dobbiamo leggere e ascoltare i testi, ma con cuori puri, non con menti che li usano per intimidire o per controllare.»
La nonna stropicciava lentamente le mani e disse:
• «Ripetevamo i versetti come gli studenti ripetono gli inni, senza fermarci a comprenderli, senza dialogarci… forse per questo non ci hanno cambiato.»
Tutti rimasero in silenzio dopo le sue parole, come se ricordassero preghiere antiche, eseguite nella paura, con lacrime versate per timore, senza mai chiedersi: dov’era l’amore? Dov’era l’umanità in tutto questo?
All’improvviso, il silenzio fu interrotto dal vento che scorreva nel cortile come un respiro profondo; le foglie si mossero e i rami sussurrarono, come a concordare con ciò che era stato detto.
Numan li guardò negli occhi e disse:
• «Non vogliamo una religione che ci incuta paura, né che ci mantenga bambini a piangere negli angoli del timore. Vogliamo una religione che ci faccia crescere, che ci faccia comprendere, rialzare la nostra postura e camminare nella vita con lo sguardo rivolto al cielo, non nascosti nella polvere.»
Abu Mahmoud rimase in silenzio per un momento, poi tossì e parlò con voce sommessa, più a se stesso che agli altri:
• «Forse siamo stati duri con voi, e duri con noi stessi. Vi abbiamo temuto e così vi abbiamo sopraffatto… e non ci siamo mai chiesti: era amore o paura di una collera che immaginavamo più grande della misericordia di Colui che ci ha creati?»
Numan lo guardò, e la voce del nonno fece risuonare in lui il vecchio dolore; rispose con dolcezza:
• «E noi, nonno, non siamo venuti a giudicarvi, ma a capire insieme, e a perdonare. Voi avevate i vostri tempi, e noi abbiamo il diritto di costruire i nostri.»
Un respiro di calma attraversò il gruppo, come se l’aria si fosse rinnovata nei loro petti, e le parole avessero tolto uno strato di polvere accumulato da lungo tempo. Il muezzin annunciò la preghiera di mezzogiorno, e tutti si avviarono verso le loro abluzioni e la preghiera, lasciando la quiete calare attorno a loro.
Capitolo Quindici 15:
La sera, Numan si recò a far visita a un vecchio amico, dopo lungo tempo di lontananza. Non erano solo le porte a separare i due durante quel periodo dall’inizio dell’anno scolastico, ma anche il tempo, gli impegni e parole non dette.
Il suo amico lo accolse con un rapido abbraccio, cercando di nascondere la stanchezza dietro un sorriso educato. Si sedettero in una stanza che profumava…
L’odore del caffè, della sera e dei lamenti aleggiava nella stanza.
Numan guardò lentamente intorno a sé e disse:
• «Sembra che qualcosa sia cambiato qui… è il posto, o sei tu?»
Il suo amico rise brevemente, come se fosse un semplice sospiro:
• «Il posto non è cambiato, ma una casa senza calore non può essere chiamata casa. Tra me e lei… c’è un muro invisibile, ma che mi blocca il respiro.»
Numan restò in silenzio un momento, poi con calma disse:
• «Non sono bravo a dare consigli, ma so ascoltare. Parlami, se vuoi.»
Il suo amico inspirò profondamente, fissando il vuoto, dove non c’era nulla se non un muro pallido, e disse:
• «Tante parole si sono accumulate nel cuore, Numan… un anno intero desiderando essere capito, non giudicato, amato così come sono, non come dovrei essere. Ti parlerò… ma prima voglio sentirmi sicuro di te.»
Poi lo guardò improvvisamente, e nei suoi occhi brillò una luce di stupore:
• «Ma prima di dimenticare… mi avevi detto che avevi fatto domanda alla Facoltà di Belle Arti! Cosa è successo dopo?»
Numan sorrise, allungando la mano verso la tazza di caffè, con un tono calmo e un po’ sorpreso:
• «Sì, ci sono andato… e ho superato la prima prova. Pensavo che avrei continuato nel corso di Design d’Interni, ma ho sorpreso tutti… e me stesso. Mi sono iscritto al corso di Lingua Araba.»
Il suo amico si mise le mani sulla bocca per la sorpresa:
• «Lingua Araba?! Numan! Tu?!»
Numan rise piano:
• «Sì… la nostra lingua, amico mio. Non solo per diventare insegnante, ma per capire le lettere che ci formano, le parole che diciamo senza comprenderle, e quelle che temiamo di pronunciare.»
Il suo amico sbatté le mani per l’incredulità:
• «Impossibile! Numan, tu che volevi diventare ingegnere… e ora rinunci ai tuoi sogni?»
Numan sorrise appena, come se il ricordo bruciasse ancora, e disse:
• «La verità, amico mio, è che dopo che avevo fatto domanda alla Facoltà, uno dei miei vecchi professori venne a casa per congratularsi per il mio diploma di scuola superiore… Mi chiese, fermandosi sulla soglia della stanza: ‘E ora, cosa vuoi fare?’»
L’amico, ansioso, lo interruppe:
• «E cosa hai risposto?»
Numan continuò:
• «Gli ho risposto… e nella mia mano avevo un disegno preparato a matita, che avrei portato con me pochi giorni dopo al colloquio già fissato un mese prima, aspettandolo con un’ansia quasi soffocante.»
L’amico, inclinandosi verso di lui, esortò:
• «Dai! Continua! Perché mi dai le parole a gocce?»
Numan rise con una punta di malinconia:
• «Sì, devo proseguire… ma prima, devi capire cosa mi disse questo stimato professore.»
«Capito, capito…» disse l’amico, agitandosi, «vai avanti!»
Numan proseguì:
• «Quando vide il disegno e capì che avrei intrapreso questo percorso, si infuriò. Poi mi portò da uno dei suoi amici, uno dei sapienti… e lì, dopo che il professore gli raccontò della Facoltà e dei suoi corsi, quel vecchio saggio si arrabbiò furiosamente.»
«Cosa ha detto?» chiese l’amico, corrugando la fronte.
Numan rispose:
• «Le parole gli sono scivolate di bocca in fretta… mi ha parlato dei disegni, della nudità, di ciò che si scolpisce e si espone alla Facoltà… e ha concluso con una frase che mi è caduta addosso come una pietra: ‘Vuoi scambiare il tuo mondo con l’aldilà? Se vuoi, conosci meglio del resto il tuo destino; altrimenti, devi correggere subito questa decisione.’»
L’amico, con uno shock evidente, esclamò:
• «E per questo hai rinunciato ai tuoi sogni?!»
Numan rispose con peso:
• «Mai! Non li ho abbandonati… sono andato alla Facoltà, e quel giorno era con me Muna.»
«Va bene… e cosa è successo?» chiese l’amico.
Numan si fermò un attimo, come cercando le parole in un angolo antico della memoria, poi disse:
• «Ah… ciò che accadde… il ricordo mi è tornato… la prima aula di disegno… l’odore dei colori mi stordiva, era come un’ebbrezza nelle mie narici. Ma… il mio corpo mi ha tradito quando mi è stato chiesto di spiegare la mia idea di luce e ombra. Balbettai davanti alla commissione, nonostante amassero il mio disegno, realizzato a matita… Ma mi chiesero di rappresentare la scena con una collega abile suggerita da loro… e non appena la compagna si preparò a recitare il ruolo, spogliandosi in parte sul palco… io mi paralizzai. Il sudore mi colava dalla fronte, e il disagio era insopportabile… feci finta di un improvviso dolore allo stomaco e lasciai l’aula scusandomi… forse non era fuga dal sogno… ma imbarazzo. Una paura che fosse interpretata come fallimento.»
Restò in silenzio, raccogliendo i frammenti di un ricordo rotto, poi sospirò:
• «Uscii dall’aula alleggerendo i passi, come chi nasconde una ferita… e lei era lì.»
L’amico lo guardò, occhi spalancati dall’ansia:
• «Chi? Muna?»
Numan annuì:
• «Sì, Muna…»
Raccontò quasi in un sussurro:
• «Mi trovò seduto sui gradini del corridoio, il volto tra le mani a nascondere la delusione… Non disse nulla all’inizio, si sedette tranquilla vicino a me, come se sapesse che il silenzio a volte è più gentile di qualsiasi parola. Poi mi chiese, con voce lieve come il fruscio di un cespuglio mosso dal vento: ‘Numan… cosa è successo?’»
Non risposi subito; rimasi in silenzio un momento, poi le confidai solo che non ero riuscito a finire… Mi guardò con uno sguardo che sembrava dire: “Va bene, conserverò il tuo sogno finché non lo riprenderai.”
Poi aggiunse, e nelle sue parole percepii la stessa dolcezza che mia madre usava con me da bambino:
• «Numan… non devi dimostrare nulla a nessuno… né a loro, né a te stesso… se ami ciò che fai, troverai una strada che ti si addice, con il tuo cuore.»
Si fermò, poi allungò la mano verso di me:
• «Vieni, prendiamo un tè sul Muro del Sogno.»
L’amico rise leggermente, poi disse:
• «Tè sul Muro del Sogno?! Questa Muna davvero… le sue parole sono calore quando fa freddo.»
Numan sorrise annuendo:
• «Sì… e da quel giorno il sogno non è svanito, si è trasformato… ora potresti trovarlo nascosto tra i versi di una poesia, o in una frase accuratamente scelta… frasi che compongo come tele invisibili, ma percepibili.»
L’amico gli batté affettuosamente sulla spalla:
• «Allora non hai tradito il sogno, lo hai rifatto a misura del tuo cuore… ma dimmi, cosa ne ha pensato lei alla fine?»
Numan sorrise, come se il ricordo stesse affacciandosi alla soglia del cuore, poi rispose:
• «Abbiamo camminato insieme, i nostri passi quasi sincronizzati con i battiti… fino a raggiungere un angolo nascosto del vecchio caffè “Al-Rawda”. Seduti lì, tra sedie di legno consunte e tavoli lucidi come levigati dai ricordi dei passanti, era una sera estiva che sembrava custodire il respiro di chi ritorna… e la città stessa sembrava aver orchestrato quell’incontro in un raro momento di chiarezza.»
Si fermò un attimo, come se ascoltasse ancora il passo dei ricordi, e continuò:
• «Il silenzio inizialmente si sedette tra noi, non perché fossimo estranei, ma perché la nostalgia, quando trabocca, ammutolisce… Sulla tavola due tazze di caffè amaro e un dolce dimenticato, o forse trascurato.»
Poi riprese, la voce a completare ciò che le parole non potevano dire:
• «Muna, tenendo la tazza con entrambe le mani come per scaldarsi l’anima, disse: “Ti ricordi? Era una mattina umida, il cielo ci guardava dalla sua balconata grigia… tremavi senza dire nulla.” La guardai a lungo e risposi sottovoce: “Non sapevo se tremavo per il freddo… o per me stesso.” Lei sorrise lievemente, un sorriso che custodiva una tristezza simile a una luce che germoglia in un angolo della memoria: “E io… non volevo abusare delle domande. Temevo che ti allontanassi. I tuoi occhi… parlavano da soli.”»
Abbassai la testa per un momento, poi confessai a bassa voce ciò che avevo taciuto a lungo:
• «Avevo paura… paura che pensassero fossi un fallimento, paura della commissione, dei compagni, del mio corpo, del momento stesso… ma ciò che più temevo era guardarti negli occhi senza trovare il tuo rispetto.»
Lei abbassò lo sguardo nel fondo della tazza, come a cercare una frase dimenticata, e sussurrò:
• «Il mio rispetto? Non ti ha mai abbandonato. Cresceva ogni volta che ti vedevo percorrere la tua strada, anche se altri la interpretavano come fuga.»
L’amico interruppe ansioso:
• «E poi? Cosa successe dopo? Dai, presto!»
Numan scosse leggermente la testa:
• «Lei mi guardò negli occhi con una sicurezza che precedeva ogni esitazione: “Parliamo chiaramente, con coraggio, con sincerità che non tema di scoprire la ferita.” Le feci cenno di continuare, sorseggiando l’ultimo caffè, e lei proseguì con impulso: “Non sei fuggito dalla commissione, Numan… sei fuggito da te stesso.” Abbassai lo sguardo un momento, poi lo rialzai come chi depone le armi e ammette: “Lo so.”»
Numan si perse nei gesti, sfiorando il bordo della tazza come per cercare un significato, e continuò:
• «Le dissi: perché non la conoscevo abbastanza… credevo solo di essere un fallimento. Lei scosse lentamente la testa con comprensione, e sussurrò: “Il fallimento è non osare ammettere che sei confuso… è naturale, con il corpo e la sua presenza… è sempre destabilizzante per chi non sa vederlo innocente.” Poi aggiunse con uno scintillio audace: “O come affrontarlo al di fuori dell’istinto.”»
Si fece un momento di silenzio, poi con voce tenue:
• «Ero lì… ricordo il tuo volto quando sei uscito dalla sala di ammissione. Sembrava che tornassi da una battaglia, avendo perso tutto.»
Scossi la testa con un senso di rassegnazione:
• «Avrei perso me stesso, Muna. Non sarei più stato capace di fidarmi di me stesso da quel giorno.»
Lei distolse lo sguardo verso il giardino, tra i rami di lillà ondeggianti, e chiese:
• «E ora… dopo tutto questo, ti fidi di te stesso?»
Sospirai, scegliendo le parole dal profondo:
• «Sai quando ho iniziato a fidarmi? Quando ho scritto di quel momento, senza nasconderlo, senza giudicarmi.»
Sollevò leggermente un sopracciglio, con genuino interesse:
• «E scriverai della ragazza?»
Sorrisi appena, con una leggera rimprovero verso me stesso:
• «No… non di lei. Di me, e di come la vedo… dello shock, dei miei occhi, non del suo corpo.»
Lei annuì come comprendendo pienamente, poi disse:
• «Allora… hai finalmente iniziato a dipingere con le parole.»
Sorrisi:
• «Sì… e ho scoperto che avevo bisogno di un’altra lingua per comprendere questo mondo. Forse ero un artista, di un altro tipo.»
Allungò lentamente la mano verso di me, testando un antico battito, e la posò delicatamente sulla mia:
• «Non fuggire di nuovo, Numan… l’arte non si riduce a una mano che disegna, ma a un occhio che non teme di vedere.»
Tacemmo… e anche lei tacque. Ma qualcosa dentro di noi cominciava finalmente a calmarsi, come se quell’imbarazzo antico, nascosto in un angolo oscuro della memoria, fosse uscito e seduto con noi al tavolo, bevendo il suo caffè, e sorridendo.
In quel momento, l’amico si voltò improvvisamente verso di me, con un filo d’impazienza nella voce:
• «E poi? Cosa è successo? Voglio sapere tutto!»
Numan rise leggermente e rispose:
• «Dopo… quella sera eravamo nella stanza di Muna, al primo piano della casa che suo padre aveva appena comprato e sistemato. La stanza era un piccolo universo, come Muna l’aveva sempre sognata: pareti coperte di libri e di tele che aveva dipinto negli anni di scuola, luci soffuse che filtravano da una lampada laterale e da una vecchia televisione silenziosa. Trascorremmo un po’ di tempo parlando di libri, film, di piccole esperienze… poi tutto si attenuò… rimasero solo sguardi incrociati e una domanda sospesa tra le righe.»
Non riuscivo a nascondere la punta di trepidazione nella voce mentre seguivo con lo sguardo lo scambio tra lei e me, quando mio zio, con tono affettuoso e un leggero rimprovero velato, disse:
• «Non mi hai mai detto, ragazzo mio, perché non hai portato avanti la strada verso le Belle Arti? Ti sarebbe piaciuta molto… forse più della letteratura.»
Scambiai uno sguardo fugace con Muna, un lampo di allerta prima di immergerci nel flusso della conversazione, e con voce sommessa ma decisa risposi:
• «Non sono sicuro, zio… se ho lasciato l’Accademia per amore… o per fuga.»
Suo padre alzò leggermente le sopracciglia, mentre Muna poggiava la mano sulla guancia e disse, senza cercare di mitigare la verità:
• «È una fuga, papà.»
Rimasi in silenzio un attimo. Guardai suo padre, poi lei, e abbassai lo sguardo come chi attinge a un ricordo antico da un pozzo di memoria:
• «Sì… una fuga. Sono fuggito… da me stesso, e dal corpo di un’altra. Dalla paura, dal disorientamento. Da una scena che non sapevo vivere né superare.»
Il padre di Muna strinse con calma i polsini della sua maglia di lana e disse, con tono più interpretativo che giudicante:
• «Ti riferisci all’esame di ammissione, vero?»
Annuii leggermente, con parole appena percepibili:
• «Sì… quando mi fu chiesto di rappresentare la mia tavola insieme a una compagna che non conoscevo. Avevo già discusso la cosa con Muna prima.»
Muna parlò con voce calda, un misto di rimprovero e dolcezza:
• «E io voglio riprenderne la discussione, per vedere cosa ne pensa mio padre.»
Inspirai profondamente prima di continuare:
• «Avevo disegnato una ragazza seduta vicino alla finestra, la luce filtrava delicata sulle sue spalle nude, tracciando confini di luce e ombra sulla sua pelle. Non cercavo di evocare alcun enigma corporeo, ma, con l’ansia di un artista, tentavo di rappresentare con la matita ciò che i raggi del sole fanno quando passano attraverso il vetro, incrociano l’ombra di una pianta e si spezzano sull’angolo del collo, avvolgendosi nel flusso della mano verso la luce, creando un’ombra come uno specchio di ciò che chiunque può vedere o descrivere… e ciò che non si può dire.»
Non la vedevo che come una tela semplice, pura nell’intento e nella volontà, eppure, inaspettatamente, suscitò stupore negli occhi della commissione. Tra sguardi ammirati e mormorii interrogativi, mi chiesero di fare una dimostrazione pratica di ciò che avevo voluto esprimere, dopo che non ero riuscito a spiegare con le parole l’interazione complessa di luce e ombra.
Fu allora che il presidente della commissione, un uomo austero e riflessivo, chiamò una delle studentesse del terzo anno:
• «Osserva bene il quadro, poi poni il tuo corpo a disposizione del compagno… perché possa ricrearti sulla scena secondo la visione scelta, con l’angolazione e l’illuminazione da lui desiderata.»
La ragazza rimase inizialmente paralizzata, poi scosse la testa con esitazione e avanzò sul palco. Il silenzio in sala era come quello di uno specchio che riflette un’immagine mai vista, solo l’anima nuda di un momento sospeso.
Mentre indicavo l’orientamento delle mani e della testa, alcuni spettatori trattenevano il respiro, come se ciò che accadeva davanti ai loro occhi fosse un segreto svelato per la prima volta. Uno dei membri anziani della commissione sussurrò accanto a me:
• «Quanto è difficile esprimere un punto di luce senza rivelare l’ombra intera!»
E io, nel frattempo, pensavo a una sola cosa: come può l’arte salvarci, quando le parole non bastano?
Si avvicinò per prendere parte alla scena con me. Le dissi:
«Quello che voglio da te qui è creare un quadro poetico, una visione sensoriale in cui le ombre della luce e il sussurro dell’oscurità si fondano. La camicia scivola sulla spalla, il tratto è classico a carboncino e grafite, solo bianco e nero. L’illuminazione deve funzionare perfettamente perché tu possa trasformarla in un’opera d’arte, un equilibrio di morbidezza e dramma.»
Spiegai al pubblico la scena: una ragazza seduta in silenzio accanto a una grande finestra, la spalla scoperta che riceve i raggi del sole che filtrano delicati attraverso il vetro. Non guarda fuori, ma dentro di sé, verso la mano distesa verso qualcosa che gli occhi non possono vedere.
La luce e il disegno dovevano essere così:
• I raggi del sole penetrano dalla finestra, illuminando lievemente la spalla nuda con linee sottili di grafite.
• Sulla spalla emergono i confini intersecati tra luce e ombra, come se la pelle stessa fosse disegnata dalla luce.
• La luce non cade diretta, ma attraversa il vetro e si incrocia con l’ombra di una pianta vicina, creando sul collo della ragazza un disegno spezzato di luce e ombra, come se la natura tracciasse la sua complessità sul corpo.
• La mano tesa verso la luce proietta ombre come uno specchio dell’interiorità, riflettendo ciò che non si può dire.
Sullo sfondo:
• La finestra è affiancata da una pianta dalle foglie grandi, la cui ombra si diffonde con precisione sul muro e sul corpo della ragazza.
• L’atmosfera della scena è segreta, come se chi guarda penetrasse un momento nascosto, visto per la prima volta.
• L’alto contrasto tra il carboncino profondo delle ombre e la grafite delicata della luce rende tangibile l’“intreccio complesso” tra chiarore e oscurità.
Per un attimo, mi sentii incapace. Forse per la vista del suo volto, o della sua emozione, o per quello che nessun altro vedeva come me: una spalla nuda che mi sfiorava l’anima. Pensai di aver commesso un errore, o di starlo per fare… e fuggii.
Chiusi gli occhi come per arrendermi al ricordo e la sentii sussurrare, con voce simile a un bisbiglio di verità:
«Dicevi di conoscere i corpi dai libri, ma non avevi imparato a vederli nella vita.»
Aprii gli occhi e la guardai. Il suo volto era calmo, ma i suoi occhi parlavano più di quanto le parole potessero. Con sincerità dissi:
«Non ero pronto, Muna. Non avevo imparato a vedere il corpo come presenza, non come seduzione. Era più di un disegno, era rivelazione… e io non ero preparato.»
Mio padre appoggiò la tazza vuota sul tavolo e disse, con una voce che traeva esperienza dal silenzio degli anni:
«Non eri pronto a mostrarti nudo davanti alla realtà. L’arte non basta che tu veda, Numan… devi guardare con un cuore che non arrossisca davanti alla visione.»
Un leggero silenzio scese, come se concedesse spazio alle sue parole di sedimentarsi dentro di me. Poi dissi, con tono che ora comprendeva ciò che giorni fa non avevo capito:
«Penso che riuscirò a capire… ma tra anni. Quando scriverò di quella scena, non la biasimerò, né la commissione. Incolperò solo quel ragazzo che non sapeva respirare davanti a una donna.»
Muna rise piano, e con dolcezza disse:
«E continui a imparare, vero?»
Sorrisi e risposi:
«Grazie a te.»
Mio padre mi accarezzò la spalla e disse, con una luce calda negli occhi:
«Non ci vergogniamo degli inizi, Numan… solo della permanenza in essi.»
L’amico, sfregandosi la mano con un’espressione stupita, chiese:
«E poi? Che è successo dopo?»
Numan sorrise, inclinando leggermente la testa con un filo di nostalgia:
«Dopo, amico mio, Muna mi propose di dipingere con le parole invece che con i colori. Così mi iscrissi con lei alla Facoltà di Lettere.»
L’amico corrugò le sopracciglia, con tono scherzoso e bonario che nascondeva la sorpresa:
«Ma… come sei stato accettato nella sezione di lingua araba, avendo un diploma scientifico?»
«È vero, amico mio…» disse Numan, poi proseguì come chi rievoca un capitolo antico e mai dimenticato:
«Quando andai alla Facoltà di Belle Arti a ritirare i miei documenti, Muna era con me.»
L’amico rise e scosse la testa leggermente, scherzando:
«E che differenza fa? Vuoi dire che ti hanno accettato perché era con te?»
Numan scosse la testa, con un piccolo sorriso sulle labbra:
«No, mai… non è così! Però, lungo il ritorno, Muna controllava la mia tabella dei voti e, all’improvviso, si fermò, silenziosa per un attimo, come se avesse scorto qualcosa di straordinario.»
La guardai interrogativo: «Che succede?»
Lei alzò il polso verso l’orologio e indicò il primo taxi in arrivo. Salimmo. Appena seduta, ordinò con decisione al conducente: «Alla Facoltà di Lettere, per favore!»
La interrogai, con un filo d’ansia: «Che succede?»
Si voltò verso di me: «Non dicevi stamattina che avrei dovuto cercare un posto libero per continuare gli studi?»
«Sì.»
E lei, con gli occhi che brillavano di sicurezza: «Hai ottenuto trentasette su quaranta nella materia di lingua araba con il tuo diploma scientifico!»
Rimasi confuso: «E cosa significa?»
Lei mi guardò come per aprirmi una finestra: «Significa che puoi iscriverti direttamente alla sezione di lingua araba, senza passare dal concorso generale. I risultati sono già usciti, e io sono stata ammessa grazie a questo… Che ne pensi, professore Numan?»
Annuii, cercando di contenere lo stupore: «Speriamo che tutto vada per il meglio.»
Ci dirigemmo verso la Facoltà di Lettere. Erano quasi le dodici.
Mi prese la mano e corremmo insieme, come se inseguissimo un destino nascosto dietro le finestre. Alla finestra della segreteria studenti consegnai i documenti e pagai le tasse e i libri. Quello stesso giorno assistemmo alla prima lezione di letteratura classica araba.
Inspirai a fondo, come ad accogliere il mio nuovo destino, e sussurrai tra me e me:
«Forse non sono mai stato un pittore… ma da stamattina, lo scriverò con le parole.»
La guardai e pensai, senza muovere le labbra:
«Sei sempre stata… senza saperlo… la nuvola che cammina sopra le mie parole.»
L’amico sospirò, tra stupore e ammirazione, poi disse contemplativo:
«È vero… hai avuto una ragazza… ma vale più di mille uomini.»
Quella notte, quando Numan rientrò nella sua stanza, si sedette sul bordo del letto, frugando nel caos dei suoi pensieri come chi cerca una chiave perduta nella tasca di un vecchio cappotto.
— «Sono stato completamente sincero?»
— «Ho detto tutto ciò che avevo nel cuore?»
— «Quella conversazione ha cambiato qualcosa in me?»
Rivide ogni dettaglio della scena come chi rivede un film che appartiene solo a sé.
— «Ho detto ciò che dovevo dire, o solo quello che voleva sentirsi dire?»
Le parole non erano tutte leggere, ma erano necessarie.
— «Fuga… è una vergogna o un istinto di sopravvivenza?»
— «Avrei potuto controllarmi nella sala d’ammissione? Liberarmi dall’imbarazzo, dalla paura, dall’educazione rigida?»
— «Muna era soltanto un rifugio sicuro, o la mia stessa immagine, quando l’avevo persa?»
Poi si parlò a sé stesso:
— «Forse un tempo avevo paura del corpo, non perché fosse peccaminoso, ma perché fragile. Fragile come me.»
— «Credevo che l’arte fosse una tela… e invece era rivelazione. Credevo di essere libero… e invece tremavo.»
— «Ma, quando ho iniziato a scrivere, ho cominciato a capire.»
Ora vedeva chiaramente: ciò che era accaduto non era un fallimento, ma l’inizio di una consapevolezza più profonda:
— «Non mi sono confuso davanti al corpo femminile, ma davanti alla mia ignoranza dei suoi confini, e dei miei. Davanti a quel bambino dentro di me che non aveva imparato a vedere la donna come essere, e non come fonte di turbamento.»
— «L’esame di ammissione era una metafora dell’accettazione di me stesso… e io, in quel momento, non ero pronto.»
Poi sospirò a voce bassa, quasi impercettibile, udibile solo dalle pareti della stanza:
— «Non mi pento. Ora capisco. E questo mi basta.»
— «Quel giorno, quando mi sono confuso davanti alla mia compagna, non era solo il suo corpo a turbarmi… ma tutte le voci antiche che abitavano dentro di me.»
La voce del professor Ahmed, che una volta lo aveva guardato con occhi lucenti:
— «L’arte è responsabilità, non deviazione… e tu sei figlio di un ambiente che accetta solo le apparenze.»
La voce dello sceicco, che batteva forte sul tavolo:
— «Vuoi scambiare il tuo mondo con l’aldilà? Lasciare la modestia e percorrere la via del vizio?»
Tutto ciò che gli era stato detto un tempo, quella sera si era risvegliato dalle ceneri: davanti alla luce che scendeva sulla spalla della compagna, davanti alla richiesta della commissione di spiegare il quadro fisicamente… non era lui, ma un insieme di ammonimenti, precetti e paure.
Ma…
Era paura del “peccato” o della “debolezza”?
Fuggiva dal fascino del corpo…
o dalla verità: che ancora non sapeva come guardare il corpo… senza associarlo al peccato?
— «Non ho inventato questo terrore. Ci sono cresciuto dentro. Si è formato in me come una ferita che si cicatrizza stortamente. Credevo che la purezza fosse nella fuga, non nella comprensione. La modestia nel trascurare, non nello sguardo limpido.»
Ma Muna aveva detto qualcosa… qualcosa che non lo avrebbe mai lasciato:
— «Chi non impara a vedere il corpo con innocenza, lo vedrà sempre come minaccia.»
Forse era il momento di riorganizzare le sue idee… non per distruggere la fede, ma per purificarla da una paura che non apparteneva a Dio, da una religiosità ereditata senza verifica.
— «Lo sceicco non mi odiava. Il professore non mi sviava. Erano solo figli di un ambiente che non sa come guardare la bellezza… senza mettere tra essa e l’occhio un velo di paura. Ora… non voglio vivere con lo sguardo offuscato, voglio guardare… capire… amare la bellezza così com’è stata creata, non come ne avevo paura.»
Quella sera, il padre di Numan rientrò, cenò in silenzio, poi si sedette vicino al camino, fissando le braci come se il loro bagliore portasse una domanda antica rimasta senza risposta.
Numan entrò con due tazze di caffè, posandone una davanti al padre.
— «Ti vedevo calcolare gli angoli con precisione, costruire case di carta come se dovessero resistere a un terremoto… Pensavo saresti diventato un ingegnere capace di edificare sogni.»
Numan si sedette accanto a lui, e la sua voce portava un’ombra di scusa:
— «Era il mio sogno, sì… ma la strada si è ristretta, non c’era spazio per me. Ho provato l’architettura d’interni, ho cercato di convincermi che stessi ancora costruendo… ma il cuore non si è rassicurato, papà.»
Questa volta il padre alzò lo sguardo; nei suoi occhi c’era qualcosa tra tristezza e rimprovero:
— «E hai accettato di allontanarti? O ti sei detto: ciò che non ho raggiunto non era per me?»
Numan inspirò a fondo, e con calma rispose:
— «Non inseguo più ciò che non mi somiglia. Ho scelto di partire da me, non da un sogno infranto. Sono entrato nel dipartimento di Lingua Araba e mi sono trovato lì. Ho visto come una parola possa costruire una casa che non crolla, aprire una finestra dove non c’era. Una sera Muna mi disse: “La lingua non è meno dell’architettura, solo che i suoi strumenti sono più profondi”. E io… le ho creduto.»
Il padre rimase in silenzio un momento, poi, con voce sommessa, disse:
— «Ero arrabbiato, sì… non perché non sei entrato in ingegneria, ma perché ho temuto ti fossi arreso prima di provare. Ho avuto paura che ti spezzassi le ali da solo.»
Gli occhi di Numan brillavano di nostalgia e sincerità mentre rispondeva:
— «Non le ho spezzate… le ho rimodellate. Quelle ali sono diventate una penna, non un righello. Non costruisco più muri di cemento, ma di significato. Scrivo per riparare ciò che non ho potuto edificare nella realtà.»
Il padre sorrise leggermente, mosse la tazza e disse:
— «E ti sei riconciliato con quel ragazzo che alzava gli occhi verso la Facoltà di Ingegneria come chi fissa una montagna?»
Numan guardò attraverso la finestra, dove la pioggia sussurrava sul vetro:
— «Non del tutto… ma gli scrivo. Leggo per lui ogni sera, come a dirgli: non è stato invano.»
Il padre mormorò, come a confessare un segreto a lungo taciuto:
— «Forse non ti ho capito allora… ma oggi sono orgoglioso. Non hai costruito solo un ponte sulla carta, lo hai attraversato verso te stesso.»
In quel momento, Numan sentì che scrivere non era più per compiacere un vecchio sogno, né per lenire una delusione, ma per vedersi com’era: un uomo che aveva ridisegnato i confini di sé dopo che le mappe della strada si erano smarrite.
Mentre la pioggia sussurrava alla finestra, entrò la madre, asciugandosi le mani con un fazzoletto di stoffa, gli occhi attenti a entrambi.
— «Vi ho sentiti… hai deciso, Numan?» disse con tono fermo ma affettuoso.
— «Sì, mamma. Mi sono iscritto al dipartimento di Lingua Araba.»
Fece un passo avanti, sedette di fronte a lui e lo fissò con uno sguardo fermo:
— «Scappi dal sogno ogni volta che la strada si restringe? O ti nascondi dietro la parola per giustificare il ritiro?»
Il padre intervenne, con voce più dolce:
— «Lascia che finisca. Quello che pensavamo essere un passo indietro potrebbe essere la ricerca della strada giusta.»
Lei rispose subito, con un velo di preoccupazione:
— «Non lo contraddico perché ha scelto la letteratura… ma perché temo si perda. La vita non è un testo bello da scrivere a piacere. È realtà, richiede mestiere, impegno e sostegno.»
Numan la guardò con calma e disse:
— «Non sto scappando, mamma. Ma ho imparato che un sogno che non può accogliere la mia statura forse non è mio. Credevo che, se non fossi diventato ingegnere, non sarei stato nulla. Poi ho capito che l’identità non si riduce a una professione, ma all’impatto che lasci.»
Rimase in silenzio per un attimo, come a pesare le sue parole, poi disse:
— «Ma hai cambiato strada più volte. Dall’ingegneria al design, poi alla letteratura… E il mio timore non svanisce facilmente. Temo che tu possa sprecare la vita cambiando facciate senza costruire mai una casa in cui vivere.»
Qui il padre sorrise, posando delicatamente la mano sulla sua:
— «Eppure ha costruito qualcosa… ha costruito se stesso. E oggi lo vedo più maturo, non meno determinato. Non importa costruire ponti tra le rive, ma innalzare un ponte tra sé e la propria anima.»
La madre abbassò lo sguardo per un istante, poi lo rialzò verso Numan, con voce più calma ma ancora piena di cautela:
— «Se hai trovato te stesso lì… stabilisci bene i tuoi passi. Non lasciare questa strada come hai lasciato le altre. E sappi che la parola è responsabilità, proprio come un edificio: crolla se non è fondata sulla sincerità.»
Numan annuì, e negli occhi aveva uno scintillio di profonda gratitudine:
— «Ve lo prometto… questa volta non tornerò indietro. Non cambierò il sogno, lo approfondirò.»