Lettere a se stessa

Lettere a se stessa
Racconto breve
di Numan Albarbari

Si chiamava Subina.
Non era un nome scelto a caso da un impiegato distratto su un certificato di nascita,
né un insieme di lettere allineate per essere gridate nell’appello del mattino.
Era una melodia profonda, che la sua anima ripeteva ogni volta che sentiva il peso dell’assenza,
un ritmo segreto che guidava i suoi passi fin dal primo istante in cui aveva messo piede sul marciapiede della vita.
Amava il suo nome come una madre ama il primo figlio:
con la curiosità della scoperta, la paura della perdita e il legame indissolubile dell’appartenenza.
In quel nome vedeva il riflesso di sé,
un simbolo unico, una finestra aperta sul mondo da cui sembrava dire: «Ecco, io sono qui.»
Quando si sposò, e sentì nel suo grembo un piccolo battito che si annunciava come promessa d’esistenza,
l’universo le parve più vasto,
e i suoi sogni si mossero, come ali che avevano dimenticato come si vola.
Quando nacque la bambina, e le sue dita tremanti toccarono per la prima volta quella piccola mano calda,
un solo pensiero le attraversò la mente:
«Porterà qualcosa di me… un’ombra del mio nome… l’eco del mio battito.»
Da quel giorno iniziò a cercare nei dizionari dei nomi
come un poeta che scava tra le parole alla ricerca del verso che gli somiglia.
Confrontava ogni nome con il proprio cuore, chiedendosi:
«Mi somiglia? È degno della mia ombra?»
Finché trovò un nome che non le sembrò una scelta,
ma un frammento naturale del suo stesso essere:
Solina.
Un’altra nota, della stessa melodia.
Sorrise e mormorò tra sé:
«Subina e Solina… due suoni dello stesso canto.»
Ma con il passare degli anni, una voce antica tornò a farsi sentire dentro di lei.
Era la voce della donna che stava dimenticando,
quella che si era smarrita tra ruoli non scelti,
tra piatti da sistemare, sguardi da compiacere e un marito che la trattava come una cosa di sua proprietà.
Nelle sere di solitudine sedeva davanti allo specchio,
guardava a lungo…
e vedeva una donna estranea,
che le somigliava, sì,
ma non era più lei.
Davanti allo specchio, si fermò a guardarsi.
E chiese alla sua immagine riflessa:
«Dove sei andata? Quando sei diventata un’ombra senza voce?»
Tra una notte e l’altra, dentro di lei salì un grido che nessuno udì,
ma bastò quel grido silenzioso per condurla fino alla soglia del divorzio.
Non cercava una ribellione vuota, né una libertà di facciata.
Desiderava qualcosa di più semplice di tutte le parole sulla libertà:
che qualcuno la ascoltasse davvero,
che credesse alla sua lacrima prima ancora delle sue parole,
che vedesse la sua femminilità non come merce, né come minaccia,
ma come un essere umano in cerca di riparo.
Subina — quella vera, quella nascosta dentro —
non chiedeva una salvezza del corpo,
ma soltanto che un uomo, una sera, le dicesse:
«Ti vedo.»
Che la vedesse mentre scriveva nell’ombra lettere destinate a non essere mai lette,
ma scritte solo per non perdersi.
Che capisse che quello sguardo allo specchio non era vanità,
ma un tentativo di ritrovare la donna che era stata.

La prima delle sue lettere a se stessa nacque così,
in una sera senza appuntamenti,
in un dialogo virtuale con la propria anima:
«Chi è la donna?
È solo un corpo da desiderare?
O un’anima che ascolta chi sa comprenderla?
È forse un insieme di paure nascoste sotto un trucco perfetto?
O… è semplicemente me?»
Scrisse allora sul suo quaderno:
“Lettere a se stessa”,
e sotto, il titolo del primo capitolo:
“Chi è la donna?”

In un angolo caldo di un piccolo cuore,
vivono dentro di me sette donne.
Non le uniscono l’età o i luoghi,
ma le stesse domande che non dormono mai,
le stesse voci che rimbalzano nell’anima
come echi di lettere ancora non scritte.
Sara incrociò gli sguardi delle amiche,
poi mormorò con voce dolce, velata di dubbio e meraviglia:
— «Chi è la donna? È un corpo che cammina tra la folla?
O è un’anima che si nasconde nell’ombra di una melodia,
che respira nei colori del cielo
e risplende come il sole nei cieli del cuore?»
Il silenzio cadde per un istante,
come se le parole avessero deciso di ascoltare prima di essere dette.
Poi Mariam alzò il capo,
e con tono calmo, colto, recitò la saggezza che solo gli anni insegnano:
— «La donna non è una parola nel vocabolario dei corpi,
ma una poesia scritta con la vita:
batte in ogni battito,
brucia a volte,
e altre volte sfiora il cielo.»
Ruqayya, con lo sguardo basso,
lo sollevò piano e parlò con la calma di chi ha visto la vita più di quanto l’abbia raccontata:
— «È un fiore che si apre in silenzio,
resiste al vento,
porta negli occhi storie ancora da narrare.
E in ogni suo capello grigio,
c’è la luce e l’ombra di una storia intera.»
Non lontano, Layla si passò una mano tra i capelli,
come per strappare da sé una voce rimasta a sussurrare troppo a lungo:
— «È la madre che fiorisce nella fatica,
la figlia che nutre il mattino con un sorriso,
la donna che lotta in silenzio in piazze che non le hanno mai dato un nome.»
Hudayl rise con leggerezza,
scostando una ciocca dal viso, e disse:
— «Basta con chi la crede fragile!
È lei che partorisce la speranza,
porta la tenerezza in ogni sguardo,
e costruisce ponti sopra i fiumi della paura.»
Samira teneva la tazza di tè tra le mani
come se stringesse il calore di un cuore lontano.
Poi, con un soffio di nostalgia, sussurrò:
— «Chi è la donna? È te, e me, e ogni donna che scava nella vita alla ricerca del proprio battito.
Ama, lotta, crea, e con la sua stessa luce illumina la fronte del mondo.»
Reem abbassò lo sguardo, poi lo rialzò con negli occhi la luce di una domanda inquieta:
— «Ci bastano queste definizioni?
O la donna si scrive con i gesti — con la costanza, la tenacia?»
Nuha le sfiorò la mano, come a rassicurarla, e disse:
— «È più di parole. È un respiro che viviamo, un sentimento in cui abitiamo.
Anche nei momenti di fragilità, è lì… resiste in silenzio.»
Zaynab annuì, la voce piena di fede:
— «La donna è anche uno spirito che irradia fede,
trae forza da Dio,
e trasforma tutto ciò che tocca in un seme di bene nel cuore degli altri.»
Layla alzò gli occhi al soffitto, come parlando all’ombra della città che amava e temeva:
— «E nel caos del reale, tra la politica e le pressioni,
rimane la donna la stessa? O cambia?»
Dall’altro capo del telefono, arrivò la voce di Durra,
una voce di donna che la distanza non aveva spezzato:
— «Anche nelle prove più dure,
la donna resta una fonte di tenerezza e di forza.»
Hasna, la più realista del gruppo, intervenne con calma:
— «In ognuna di noi vive una donna che le assomiglia.
Non esiste un solo modello di perfezione.»
Yasmin sorrise con dolcezza:
— «A volte l’amicizia ci restituisce ciò che avevamo perduto di noi stesse.»
Mariam rise, indicando tutte con un gesto affettuoso:
— «La donna è l’‘altra’ che vive in ognuna di noi.
È la vicina, l’amica, la sorella che lotta per essere se stessa.»
Sara sospirò, come chi getta un sasso in acqua ferma:
— «Allora… la donna nasce da dentro?
O è la società a disegnarne i confini?»
Ruqayya sorrise e rispose:
— «Entrambi.
La donna si forma nella meraviglia della sua essenza
e nella prova del mondo.
È un essere complesso…
una sorgente inesauribile di vita.»
E così, in quella sera di conversazioni e silenzi,
non arrivarono a una risposta definitiva.
Ma compresero — tutte —
che la donna non è una domanda da risolvere,
bensì una vita da vivere.
Una storia che si scrive ogni giorno
su quaderni che non dovrebbero mai essere chiusi.
Fu così che lei raccolse le loro parole,
e ne fece la prima lettera della raccolta:
“Lettere a se stessa.”
Chi è la donna?
È forse un corpo che cammina tra la gente,
o un’anima che pulsa di vita,
che abita tra i colori
e risplende come il sole nei cieli del cuore?
La donna non è una semplice parola:
è una poesia scritta sulle pagine del tempo.
È sogno e speranza,
una forza silenziosa che non si vede ma si sente
in ogni battito del cuore.
È un fiore che si apre nel silenzio,
che resiste alle tempeste,
porta negli occhi storie ancora non raccontate,
e riflessi di luce e d’ombra.
È la madre che dona senza misura,
la figlia che abbraccia l’alba con un sorriso,
l’amica che illumina il cammino
quando le luci si spengono.
La donna non è un essere fragile, come alcuni credono:
è la forza che genera la speranza,
la tenerezza che scioglie il gelo,
la determinazione che costruisce ponti
tra l’impossibile e il possibile.
Chi è, allora, la donna?
È te, è me, è ogni donna che lotta per se stessa,
che ama, dona, crea.
È la vita in tutti i suoi colori,
il segreto dell’esistenza,
la gioia del mondo.

In una sera quieta,
un gruppo di donne si era riunito in un salotto letterario,
su un canale televisivo dove le anime si incontravano
prima ancora delle parole,
e le storie si scambiavano prima delle analisi.
Le pareti sembravano sussurrare segreti di vite vissute,
mentre il profumo del tè caldo danzava nell’aria.
Sara, con gli occhi accesi di curiosità, chiese:
— «Che cos’è la libertà per la donna?
È un’idea che evochiamo nelle notti,
o è un battito che vive dentro di noi?»
Mariam rispose con la voce matura della saggezza:
— «La libertà per la donna è la capacità di scegliere il proprio destino,
di essere ciò che vuole,
senza catene che imprigionino la sua anima.»
Ruqayya alzò il capo, con fierezza nello sguardo:
— «La dignità per la donna è proteggere se stessa dalla frattura,
camminare nel suo sentiero con fiducia,
rifiutando tutto ciò che la umilia.»
Hudayl sorrise, la voce calda:
— «Il sentimento, per la donna, non è debolezza:
è una forza che abita il cuore,
la fa amare, donare,
e illuminare la vita di chi la circonda.»
Samira, con il tono di chi ha vissuto molto, aggiunse:
— «La fierezza per la donna è alzare la testa davanti alle difficoltà,
essere forte anche nella fragilità,
camminare senza paura.»
Le donne si scambiarono sguardi,
ognuna vedendo nell’altra il proprio riflesso.
Compresero che libertà, dignità, sentimento e fierezza
non erano concetti astratti,
ma vite vissute, raccontate, condivise.
In quel salotto,
le parole non erano più semplici lettere,
ma battiti di cuore.
Raccontavano la storia di ogni donna
nella sua ricerca di sé,
in un mondo che cambia,
ma dove lei resta sempre la luce che non si spegne.
La Donna e la Luce
In una sala calda, nascosta tra le pagine di un vecchio libro, uomini e donne sedevano attorno a un tavolo.
C’erano tazze di caffè, quaderni pieni d’inchiostro e ricordi.
Le luci erano basse, gentili: non ferivano le parole quando sussurravano, né turbavano i volti quando si scoprivano.
Fu lì, in quell’angolo sospeso nel tempo, che qualcuno parlò della donna.
«La donna è luce,» disse Iyad, con voce profonda.
«Non una luce che attraversa e svanisce, ma quella che nasce dentro. Là dove l’occhio non arriva, e il pensiero si ferma.»
Lujayn si sporse leggermente, incuriosita:
«Vuoi dire che la luce in lei non si vede, ma si sente?»
Lui annuì.
«Nei suoi occhi vive una scintilla di vita. Nel suo cuore, una lampada che non si spegne.
E quando cammina nel buio, illumina non solo la terra che calpesta, ma chi la segue, e forse anche la memoria stessa del tempo.»
Salma tracciò un cerchio col dito sul bordo della tazza:
«Come se la luce, all’inizio dei giorni, fosse nata donna.»
Maysaa sorrise:
«Ma non brilla perché sa sorridere. Brilla perché dentro di sé custodisce un’oasi che non si prosciuga mai; disseta chi passa, e nasconde la luce per chi l’ha perduta.»
Un silenzio lieve, pieno d’ammirazione, percorse la stanza.
Iyad riprese:
«La sua luce non ha colore. È essenza, virtù, respiro.
È luce quando abbraccia un figlio, quando veglia su un sogno, quando capisce senza domande e perdona senza richiesta.»
«Niente illumina come l’anima di una donna,» disse Nada.
Rami, accanto a lei, sussurrò:
«E nessuna notte le resiste.»
Nada lo guardò negli occhi:
«Quando dice: “Sono qui”, il buio si apre, e il cuore trova la via.»
Ma Yumna chiese piano:
«E se la luce si spegne? Non accade anche a noi?»
Un silenzio lungo cadde.
Poi Iyad rispose:
«Si affievolisce, se ferita. Ma non si spegne mai.»
Rubà propose allora:
«Raccontiamo ognuno una luce femminile nella propria vita — una madre, una sorella, un’amica, una donna amata. Qualcuna che abbia illuminato il nostro cammino.»
Alcune luci si spensero nella sala, e le voci divennero intime, come se anche le pareti ascoltassero.
Maysaa parlò per ultima. Guardava oltre la finestra, verso un punto lontano.
«Quando una donna ama,» disse piano,
«abbraccia l’universo.
Diventa casa, rifugio, e il suo silenzio è coperta che ti avvolge nelle sere fredde.»
Le teste si chinarono. Qualcuno chiuse gli occhi.
Lujayn aggiunse:
«Sa accogliere anche quando è spezzata.
Nasconde le crepe sotto un sorriso e dice: “Va tutto bene” per non far soffrire nessuno.»
Iyad guardò la sua tazza:
«Ma non va sempre bene… e noi spesso dimentichiamo che anche lei ha bisogno di essere accolta.»
Nada parlò con dolce malinconia:
«Ricordo mia madre. Non l’ho mai sentita lamentarsi.
Ci stringeva a sé anche quando sbagliavamo — come se il perdono fosse già nel suo respiro.»
Rami annuì:
«Quando ama, lo fa senza misura. Tutta intera.
Non conosce la metà delle cose.»
Rubà, con tono deciso, disse:
«La tenerezza di una donna non è debolezza.
È la forza di chi sa fermare la tempesta con un abbraccio, non con una ragione.»
Yumna rise:
«Non serve spiegare nulla. Ti guarda, e capisce. Ti porta un tè caldo e dice soltanto: “Immaginavo ti servisse”.»
«Come riesce?» mormorò Iyad.
«Come fa a unire mente e cuore in una melodia senza stonature?»
Salma sorrise:
«Perché è nata su un ritmo diverso.
Ascolta ciò che non si dice.
Cura la ferita senza negarla.»
E poi Maysaa concluse, con voce che sembrava un sigillo:
«La donna ti accoglie quando ti perdi, ti stringe quando hai paura, ti perdona quando sbagli.
E quando tace, ti ha già perdonato.»
Seguì un silenzio lungo, pieno di qualcosa che non aveva nome.
Forse tutti, in quell’istante, capirono di aver sfiorato una luce simile nella propria vita…
senza rendersene conto, se non dopo averla perduta.
Lo Smarrimento
La donna, quando ama, non cammina mai su un filo diritto.
È un cuore che corre nei campi del dubbio: tiene la nostalgia con una mano, e la paura con l’altra, mentre dentro di sé sussurra:
“È possibile amare così tanto? E mi sarà concesso di tenere qualcosa solo per me?”
Non si smarrisce perché è debole, ma perché sente in profondità, dove gli occhi non arrivano.
Sa che l’amore, se versato senza misura, può annegare chi ama, invece di dissetarlo.
Il suo smarrimento non è difetto, ma segno di trasparenza:
sembra incerta perché non sa fingere, perché non sa donare un volto e nasconderne un altro.
Vuole amare con tutta sé stessa, perché teme di essere presa, un giorno, tutta intera.
Cammina sulle punte delle emozioni, balbetta quando nasconde la nostalgia, sorride al vuoto mentre dentro si spezza.
Ama, ma nel suo smarrimento protegge ciò che resta di sé —
protegge l’equilibrio tra dono e dignità, e cerca un abbraccio che comprenda il suo silenzio,
una mano che non le chieda di essere sempre sicura, ma le dica soltanto:
“Sii confusa, se vuoi. Io resto qui. Non temo la profondità del tuo mare, né il tremito del tuo cuore.”

Il Silenzio
Il silenzio di una donna non è vuoto.
Il suo tacere non è assenza.
È, spesso, un eccesso di sentimento che non trova una forma degna della sua verità.
Quando tace, nasconde una tempesta che non vuole ferire.
Dentro di sé ordina parole che, se dette, potrebbero spezzare, deformare, o ferire chi ama.
Non tace perché non sa parlare, ma perché sa ascoltare — prima di tutto se stessa.
Perché rispetta al dolore il suo posto, al rimprovero il suo limite, e alla paura il diritto di esprimersi piano, o di non esprimersi affatto.
Il suo silenzio non è una fuga, ma una protezione:
protegge l’amore dal caos dei sentimenti,
la dignità dal sospetto,
la distanza tra due cuori dal restringersi in un istante di stanchezza.
E tace anche perché ha imparato, con il tempo,
che certe verità, dette al momento sbagliato, fanno più male che bene;
che la sincerità, se non trova un ascolto gentile, si trasforma in lama contro di lei.
Quando una donna tace nell’amore, non ignorare il suo silenzio.
Avvicinati a esso come a un segreto.
Leggi nei suoi occhi:
nel silenzio di chi ama si nascondono mille libri non scritti, mille frasi non dette —
destinate solo a chi sa ascoltare non le parole, ma il battito.

La Perdita
Per una donna, la perdita non è un istante strappato al tempo,
ma un’onda segreta che continua a muoversi dentro di lei, anche quando sorride.
Una donna non perde come gli altri.
Non si accontenta del pianto, né dell’oblio:
custodisce i dettagli della perdita in luoghi dove la luce non arriva —
una voce, un profumo di camicia,
un’ombra di addio rimasta sulla soglia.
La sua tristezza non è debolezza, ma fedeltà dolorosa.
Una fedeltà che si insinua nei suoi sogni, nel suo silenzio,
nella tenerezza con cui accarezza gli altri,
senza che si accorgano che quella dolcezza è il resto di un amore antico,
che non sa più a chi appartiene.
Alleva il suo dolore come un fiore sul davanzale:
lo irriga, gli parla,
e poi lo nasconde agli sguardi per proteggerlo.
Può amare ancora, dopo la perdita —
ma qualcosa di sé rimane là,
sospeso in un momento incompiuto, in una parola non detta,
in un abbraccio che è caduto prima di chiudersi del tutto.
Non sa dimenticare, ma sa vivere:
sa sorridere con cautela, amare con lentezza,
proteggersi quando la terra torna a tremare.
La perdita le ha insegnato
che la distanza non si misura in passi,
e che il vero addio è l’assenza di chi vive ancora nella memoria.

Il Silenzio dell’Amore
La donna non rivela sempre ciò che ha nel cuore —
non perché non sappia parlare,
ma perché sa custodire.
Dentro di lei, l’amore cammina sulle punte delle parole:
leggero, tremante, ma saldo.
Il suo sentimento non ha bisogno di nomi,
né di essere appeso ai muri.
È lì —
in una piega dello sguardo,
nel tremito di una mano,
nella cura con cui prepara un caffè,
in una preghiera silenziosa prima di dormire.
Non sa fingere nei sentimenti:
o ama con tutta sé stessa, o si rifugia nel silenzio.
E quel silenzio non è aridità, ma acqua invisibile che disseta,
tenerezza che non si dice —
perché dirla la renderebbe fragile.
Puoi passarle accanto e crederla fredda,
ma se ti avvicini un po’,
se ascolti il suo silenzio,
vedrai quanti cuori battono dentro di lei,
quanta dolce attesa nasconde sotto il cuscino.
Il silenzio nell’amore non è mancanza, ma elevazione.
Ama senza sconvolgerti,
ti desidera senza incatenarti,
e crede che la verità dei sentimenti
non abbia sempre bisogno di voce.
La Confessione Rimandata
La donna non parla sempre quando sente.
Non affretta le parole, come credono quelli che ignorano il respiro lungo del suo cuore.
Conserva le parole dentro di sé come un profumo raro, chiuso in una boccetta che si apre solo nel momento giusto — quello che merita.
Per lei, il confidarsi non riempie un vuoto:
è un dono che si offre a un luogo sicuro,
a un orecchio che non giudica,
a un cuore che non tradisce.
Sa bene ciò che prova, ma tace —
finché non è certa che la parola non sarà sprecata,
che il sentimento non verrà ridotto,
che il suo cuore non sarà rimpicciolito negli occhi di chi non sa ascoltare.
Rinvia la confessione, non per paura,
ma perché conosce il valore di ciò che porta dentro.
Quando ama, lo fa con una profondità che non si dice subito;
quando ha nostalgia, la vive in un silenzio che non si deve interrompere.
Il suo silenzio non è esitazione,
ma sacralità del sentire,
arte del tempo giusto del battito,
desiderio puro che la sua parola sia un dono, non una resa.
Allora tace, poi scrive, poi strappa ciò che ha scritto,
e infine si limita a uno sguardo, a un tocco leggero sul margine del discorso.
Così si confida — senza dire.
Ama — senza turbare.
Attende — senza pesare.

L’Intuizione
La donna non aspetta la verità per riconoscerla.
La sente prima che accada.
Legge le intenzioni prima che siano pronunciate,
avverte i mutamenti nella voce, nello sguardo,
nelle piccole assenze che non si spiegano.
Dentro di lei c’è qualcosa come un vecchio radar:
non si vede, ma funziona.
È l’intuizione — nata con lei, non imparata.
Si accende quando il sentimento si piega,
quando cambia il ritmo segreto del senso,
quando la presenza resta, ma l’anima si ritira.
L’intuizione non è fantasia: è certezza senza prova.
La sveglia di notte senza motivo,
le fa prendere il telefono proprio quando il messaggio sta per arrivare.
Le fa capire che non stai bene,
anche se le dici che tutto va bene.
Quando ti guarda a lungo negli occhi,
non osserva: ascolta.
E quando qualcosa trema nel suo cuore,
si ferma, lo ascolta, ci crede —
e sorride, come se avesse sempre saputo.
L’intuizione non è magia,
è la saggezza del cuore quando è puro.
E da quella verità segreta lei ama prima di essere amata,
perdona prima di essere ferita,
e si allontana… prima che qualcuno le dica addio.

La Nostalgia
La donna è un fiume che non si prosciuga mai.
Scorre portando con sé le tracce di chi ha amato,
le storie dei giorni passati,
le impronte di passi che hanno lasciato segni indelebili.
La nostalgia, per lei, non è un istante fugace,
ma un viaggio lungo nel tempo.
La avvolge quando il sole cala,
la abita quando il mondo tace.
Rimpiange in silenzio tutto ciò che è stato —
i momenti che l’hanno stretta,
le parole mai dette,
le lacrime che gli occhi hanno versato senza che la bocca piangesse.
Nel cuore della donna, la nostalgia non si spegne con la distanza,
né si addolcisce con l’assenza dei volti.
È la nostalgia dell’anima —
una memoria che brucia dentro,
che viaggia nei sogni,
che ritorna al primo incontro, al primo sorriso, al primo sussurro.
Custodisce questa nostalgia come un segreto:
la rinnova ogni mattina,
la manda nel vento della sera,
come a dire alla vita:
«Sono qui, con la mia nostalgia che mi costruisce».
La nostalgia non è debolezza,
ma forza che accende il fuoco della speranza
e la difende dal gelo dell’oblio.
È il battito che le insegna ad amare,
a restare fedele,
anche quando il tempo le scivola tra le dita.

L’assenza
Esiste un’assenza che non si vede,
che non si misura con chilometri o ore,
un’assenza che vive dentro la donna
come un’ombra che non la lascia mai,
come un’eco che ritorna senza fine.
È un’assenza dolce e amara insieme,
di chi non se n’è andato eppure è lontano,
presente in un luogo vicino ma irraggiungibile,
che aleggia silenziosa negli angoli del suo cuore,
riempiendo un vuoto che non si ode,
lasciando un’impronta che non si cancella.
La donna sente quell’assenza come l’aria:
non la vede,
ma la percepisce nell’oscurità dei suoi occhi,
la tocca nel silenzio delle parole,
la respira nei momenti di solitudine che nessuno conosce.
Quell’assenza le insegna la pazienza
e pianta nel cuore un germoglio di speranza.
Ma la appesantisce anche di un dolore silenzioso,
costringendola a sorridere quando le lacrime vorrebbero colare negli occhi.
L’assenza è una prova quotidiana,
una sorpresa di solitudine in mezzo alla folla,
una lezione di forza quando non c’è chi ascolta
o chi veda ciò che non può essere detto.
Eppure, nonostante tutto,
la donna mantiene la sua presenza,
nasconde quell’assenza nel profondo di sé,
coltiva il germoglio della pazienza
e attende il momento in cui la presenza di chi era assente
tornerà a riempire il vuoto e a dissolvere il silenzio.

Il Desiderio di Protezione
La donna non è solo simbolo di forza e fermezza.
È anche un fiore che sogna una mano che lo sfiori con delicatezza,
un cuore che la accolga quando il vento soffia impetuoso,
un’ombra che la protegga dal calore e dalla furia dei giorni.
Dentro di lei c’è un desiderio silenzioso,
una melodia di sicurezza che pulsa nel profondo,
una voce muta che chiede aiuto senza nascondere la propria forza.
Questo desiderio di protezione non è debolezza,
ma la naturale necessità di condividere il suo cammino,
di trovare chi illumini il suo sentiero quando le tenebre la avvolgono.
Quando trema l’albero della sua dignità,
cerca accanto a sé una mano che consoli,
una voce che rassicuri,
un abbraccio che semini serenità nonostante le tempeste.
La donna che non desidera protezione sa combattere,
ma conosce anche il momento di cedere all’amore,
quando la mano dell’amato è rifugio, non vincolo,
quando il suo abbraccio è patria, non prigione.
In questo desiderio dimora la sua femminilità:
una forza che non si misura con la potenza,
ma con la sincerità della necessità di essere protetta,
di avere nel cuore una quiete che le appartiene davvero.

Lo Stupore
La donna è quella scintilla negli occhi
quando scopre la vita per la prima volta,
quando apre porte chiuse
e vede il mondo con gli occhi di una bambina
che porta il cielo nel cuore.
Si interroga, si meraviglia, si stupisce.
La prima meraviglia non è un istante effimero,
ma un’esplosione interna che risveglia l’anima,
accende nel cuore il fuoco del sogno,
riempiendola di un desiderio limpido di comprendere ciò che la circonda.
È il momento in cui ricorda a sé stessa
che è nuova,
non contaminata da pregiudizi.
È l’istante in cui tocca per la prima volta la mano dell’amore,
ascolta la melodia della vita con note ancora vergini,
sente il mondo chiamarla e spalanca le ali
che non conoscono freni.
Lo stupore rende la donna un essere che pulsa di vita diversa:
canta con la brezza del mattino,
danza con la luce della luna,
sogna ciò che le parole non possono raccontare.
In quello stupore scopre se stessa,
inizia il suo viaggio nella comprensione di sé e del mondo,
abbracciata con gentilezza,
con le porte dell’aspettativa aperte,
all’inizio di ogni forza, ogni dolcezza, ogni nuovo sogno.
La lotta silenziosa
La donna affronta battaglie invisibili, guerre interiori che si combattono nei corridoi del cuore e dell’anima.
Sono conflitti che non annuncia, né urlano al mondo; sono le battaglie del silenzio, dove le spade non tagliano, ma le parole si tessono piano dentro se stessa.
Nel silenzio, riorganizza i pensieri, lotta contro le paure e il dolore, combatte i propri demoni e traccia nuovi confini per la sua forza e la sua essenza.
La lotta silenziosa non è debolezza, ma la forma più alta di coraggio:
la donna accumula dolore senza mostrarlo, reprime il nodo in gola, alleggerisce i suoi pesi con una tenerezza nascosta, e mantiene un sorriso saldo sul volto.
È un grido che l’orecchio non ode, ma risuona nell’anima:
la donna resiste, affina se stessa nel silenzio, e vince tutto ciò che cercava di spezzarla.
In questa lotta silenziosa rinasce, forte, tenace e libera, mostrando senza parole che la sua forza non sta nell’urlo, ma nel silenzio che esprime la più profonda forma di sfida.

Lo specchio
Lo specchio non è solo un pezzo di vetro che riflette un’immagine:
è una finestra da cui la donna osserva se stessa, affrontando ciò che appare e ciò che nasconde più profondamente.
Quando la donna si guarda nello specchio, non vede solo il volto:
incontra il battito della propria anima, interroga il riflesso su storie non raccontate, sogni e segreti intrecciati nelle linee del tempo.
Lo specchio le mostra una forza nascosta, rivela la vulnerabilità che non teme di mostrare, e riflette tristezza e gioia, dubbio e certezza, smarrimento e ritorno.
È lo specchio della verità che non nasconde, che costringe la donna ad accettarsi, amarsi, scoprire se stessa lontano da maschere e finzioni.
Ogni sguardo nello specchio è un riordino dei suoi capitoli, una riscrittura della propria storia, un ritorno alla convinzione che la vera bellezza non è nell’aspetto, ma nella pace con se stessa.

La paura
La paura abita nel profondo della donna, non come debolezza, ma come un battito che avverte, un amico che custodisce la soglia dell’anima, proteggendola da ferite incompiute, e instillando nel cuore una vigilanza costante.
La donna vive la paura nel silenzio, senza permettere che la pieghi; la trasforma in carburante:
trasforma la fragilità in forza, il dubbio in certezza, l’indecisione in decisione.
All’ombra della paura, impara a essere prudente, a proteggere il suo spazio, a distinguere chi merita amore da chi no.
Ma la paura le insegna anche il coraggio: a fare il primo passo nonostante il timore, a costruire un ponte di audacia per raggiungere ciò che è oltre le ombre dell’ansia.
È un amico che non sceglie, ma che sa padroneggiare:
la donna dialoga con la paura, convive con essa, fino a trasformarsi in una leggenda di luce, affrontando tutte le sue paure nel silenzio.
L’incendio
A volte la donna arde come una candela che illumina la notte buia, bruciando in silenzio senza spegnere la propria luce.
Si scioglie dentro di sé, dona fino all’ultimo respiro, finché non diventa cenere profumata.
È un incendio invisibile, ma accende dentro di lei fiamme che non si estinguono: fiamme di dedizione, amore e fedeltà.
Sacrifica tutto, senza perdere la propria anima tra le fiamme.
L’incendio della donna è la lotta tra dolore e dignità, tra spegnimento e bagliore, tra resa e attaccamento alla speranza.
È il momento in cui perde una parte di sé, per rinascere più forte, più pura, più profonda.
Ogni incendio racconta una storia scritta nelle linee del dolore, ma è anche una storia di luce, la luce che il cuore ardente crea, illuminando il cammino di chi la circonda, anche quando è solo lei a bruciare.

La memoria del sentimento
Il sentimento nel cuore della donna non è un momento fugace, ma una memoria che si rinnova, custodendo ogni sussurro, ogni sorriso, ogni lacrima versata in silenzio, nascosta negli angoli dell’anima come un tesoro prezioso.
La memoria del sentimento restituisce i colori ai giorni, evoca il profumo del passato e disegna i volti di chi ha amato, di chi ha perso, di chi ha continuato ad aspettare.
La donna porta la memoria del suo sentimento come una tela viva, conservando il dolore della perdita, la nostalgia degli incontri, la passione dell’amore e la quiete del cuore quando le tempeste si placano.
Questa memoria non svanisce, ma diventa un faro che illumina i suoi sentieri, insegnandole ad amare profondamente, a sopportare in silenzio e a costruire dai resti del passato ponti verso il domani.
Nella memoria del sentimento risiede la donna: un’anima immortale, che ama, soffre, guarisce, si rinnova ogni giorno e scrive la storia della propria esistenza sulla pagina del tempo.

Il bagliore del cuore
Il primo tremito non è solo un movimento del cuore, ma un’attesa che riempie il petto, un battito nascosto che annuncia la nascita di nuovi sentimenti, l’inizio di un viaggio invisibile ma profondamente percepibile.
La donna custodisce quel bagliore come un segreto sacro, un indizio che qualcosa è cambiato, che la sensazione ha iniziato a bussare alla porta del suo cuore con delicatezza, riempiendola di esitazione, stupore e desiderio non detto.
In quel momento, le emozioni si intrecciano tra paura e gioia, attesa e ansia.
La donna esplora se stessa e ridisegna i confini del suo mondo interiore.
Il primo bagliore è un battito delicato, la firma di un momento che annuncia l’ingresso della donna nel mondo dell’emozione, un universo nuovo che ridefinisce la sua esistenza e la avvicina alla sua vera essenza.

La timidezza
La timidezza nella donna non è debolezza, ma un linguaggio silenzioso con cui esprime la propria delicatezza, il desiderio di protezione e la cautela verso mondi che potrebbero ferirla.
È quella sensazione che avvolge le sue parole, trema nei suoi occhi, si ritira nel sorriso timido, muove i battiti del cuore quando si avvicinano cose che non si possono dire.
Nella timidezza, la donna custodisce il proprio mondo, valuta ciò che merita di essere mostrato e ciò che deve restare avvolto dalle ombre della prudenza.
Ma la timidezza non le impedisce di essere forte. Dietro quel velo sottile si cela un grande coraggio, pronto a manifestarsi nel momento giusto, con voce chiara e ferma.
La timidezza è il lato della purezza e la chiave per comprendere la donna nel suo profondo. Quando si apre, il silenzio ha già detto molto e la porta dell’incontro autentico si spalanca.

Chi è questa donna?
Ora appare: “La finestra della luce blu”
La notte della città è lieve, fredda senza essere aggressiva, pesante senza essere insopportabile.
Sopina è seduta sul bordo del letto, come pronta a fuggire, non da un luogo fisico, ma da una prigione invisibile: un filo sottile che si estende dallo sguardo freddo del marito alla voce di sua madre, simile a specchi rotti quando la chiama: “Sopina! Vai a servirlo”, facendola sentire — in quel momento — diversa da quella che scriveva nei quaderni del liceo, diversa da colei che ancora nascondeva il diario in una borsa dentro un armadio che nessuno apriva.
Lo schermo del telefono si illumina. La luce blu si posa sul suo volto.
Questo momento fa parte di un rito notturno che non viene oltrepassato.
Quando la famiglia dorme, quando i comandi si affievoliscono, inizia il suo viaggio alla ricerca dell’altro. Non “l’uomo” nel senso secco del termine, ma un compagno che ascolta, crede, si interroga con lei, che le restituisce il suo nome mentre lo legge nei messaggi, senza mai incappare in un “signora di tizio”.
La mano tremante non conosce porte da aprire; percepisce solo, con l’intuito della donna, quelle zone nascoste negli uomini che scrivono:
“Amo la donna intelligente”
“Cerco un dialogo sincero”
“Non sopporto le relazioni superficiali”
Frasi forse ripetitive, ma che significano qualcosa per chi non viene parlato nella sua lingua.
Scrive il primo messaggio e lo cancella.
Riformula.
Lo elimina di nuovo.
Alla fine scrive:
“Buonasera… pensi che un’ombra come me possa amare?”
Resta a fissare lo schermo, come in attesa di un miracolo.
E immagina:
E se la voce dall’altra parte fosse sincera?
E se leggesse le sue parole come le scriveva nei quaderni del liceo?
E se la vedesse come donna, non come lavoro, non come cuscino, non come costola mancante?

Uno specchio che non sa mentire
Nell’angolo più remoto della camera da letto, dove la luce è debole, non rivela tutto ma non nasconde nulla, Sopina si fermò davanti al suo specchio come davanti a un avversario che non concede indulgenze.
Lo stesso volto.
Gli stessi capelli.
Le guance piene che sua madre le aveva sempre indicato come il segreto della bellezza, prima che diventassero lo specchio di una fatica che resiste al trucco.
Abbassò lo sguardo con esitazione, come se non osasse affrontare il resto del corpo.
Le spalle leggermente curve, come stanche di reggere il mondo…
Il seno, che aveva perso la sua rotondità sotto il peso dell’allattamento e dell’oblio…
La pancia, non più tonica come una volta, attraversata da sottili linee, come la mappa di un luogo che non conosce più.
I fianchi erano ancora quelli di sempre… ma qualcosa in essi appariva straniero, come se la gravità non bastasse più a trattenere le cose a terra, ma le sospingesse verso un tempo più lontano.
Allungò la mano verso la coscia, percependo la pelle meno tesa di un tempo, come a dire: «Questa sono io, e qui è passato il tempo».
Sussurrò a se stessa, senza voce:
— «Sono ancora io? O lo specchio riflette un’altra donna… più calma? O più spenta?»
Eppure, nei suoi occhi, nonostante tutto, brillava una resistenza.
La scintilla di chi conosce la strada anche quando si perde, di chi sa che una donna, nei suoi momenti più profondi, non si misura con una pancia piatta o una pelle levigata, ma con la capacità di restare davanti allo specchio… senza fuggire.
Le lunghe notti.
Fissò i propri occhi…
È davvero lei?
Lei che sorride nelle foto del matrimonio, che nasconde un diario pieno di parole che nessuno conosce?
Lei che scriveva:
“Io sono donna… non un contenitore, non un corpo, non obbedienza.”
Fece un passo verso lo specchio.
Sussurrò senza voce:
— «Perché non mi vedi?»
Ma lo specchio era sincero… più del necessario.
Mostrava linee sottili intorno agli occhi, la perdita di freschezza nelle labbra che da tempo non pronunciavano un «Ti amo».
Quella sera non aveva truccato il viso, né kajal, né rossetto… voleva solo vedersi nuda, senza ornamenti, senza finzioni.
— «Dove sei andata?»
Lo disse anche senza voce.
Chiedeva a quella ragazza che aveva scritto lettere d’amore agli sconosciuti nei diari del liceo, che aveva creduto che il mondo si sarebbe adattato alla sua femminilità, che la vita si sarebbe piegata se avesse camminato con fiducia nei corridoi del sogno.
Ma la “vita” l’aveva afferrata per mano piccola, l’aveva collocata in una casa senza finestre, eccetto una piccola chiamata «lo specchio», che rivela senza salvare, che dice la verità senza rispondere.
Alzò la mano, passò le dita sulla guancia, come per sentire un’altra donna.
E infine, quasi senza voce, disse:
— «Se sei tornata… se sei ancora qui… dammi un segnale.»
Una lacrima scivolò.
Lo specchio non l’ha cancellata.
Piccoli tocchi sul vetro
Non passò neanche un istante dopo che Sopina aveva pronunciato la sua domanda allo specchio, che una voce leggera come filo di rugiada risuonò:
– «Mamma… cosa stai facendo?»
Si voltò di scatto, come chi viene sorpreso a rubare, anche se in realtà stava rubando solo un momento vero con se stessa.
Sul piccolo uscio stava Rem, la figlia più piccola, in camicia da notte rosa, con una bambola tra le mani. La testa della bambola era inclinata, come se il sonno l’avesse spezzata.
Sopina le sorrise, un sorriso appena accennato, e disse con calma:
– «Niente, mamma… stavo solo prendendo qualcosa dall’armadio.»
Rem si avvicinò, posizionandosi tra sua madre e lo specchio.
La osservò, poi guardò il volto di sua madre e mormorò con voce assonnata:
– «Mamma… perché sei triste?»
Sopina sussultò dentro. Non si aspettava che il suo viso tradisse i suoi sentimenti con tanta chiarezza.
Cercò di ridere, di cambiare argomento, ma la bambina la precedette:
– «Ti ho sentita parlare, ma non ho visto nessuno… parlavi con te stessa?»
Sopina si inginocchiò davanti a sua figlia, incontrò i suoi occhi grandi e luminosi, e sentì che lì stava guardando se stessa, in un piccolo volto non ancora intaccato dalla vita.
Appoggiò la mano sulla guancia della bambina e sussurrò:
– «Sì, mamma… a volte gli adulti parlano da soli quando non trovano nessuno che li ascolti.»
– «Io ti ascolto, mamma…»
Rem disse queste parole, poi allungò la sua manina e accarezzò la guancia di sua madre, asciugandole una lacrima come se sapesse.
In quel momento, Sopina comprese che ciò che le mancava non era un uomo che ascoltasse, ma un orecchio che non giudicasse, un cuore piccolo che non conoscesse la menzogna.
Sapeva anche che presto la bambina si sarebbe addormentata e che lei sarebbe rimasta sola, davanti a uno specchio che non rispondeva, con una vita che aspettava da lei decisioni ormai impossibili da rimandare.
Prima di uscire dalla stanza, Rem si voltò e disse:
– «Stasera dormo accanto a te?»
Sopina rispose senza esitazione:
– «Sì, tesoro… dormirò accanto a te.»
Spense la luce dello specchio e rimase lì, a pensare da sola.

Una finestra su una luce lontana
Nelle ore più tarde della notte, dopo che tutti erano addormentati — la suocera nella sua stanza, il marito sempre assente nel suo letto, i bambini nei loro sogni innocenti che ignorano il dolore — Sopina si sedette nello stesso angolo, ma questa volta non davanti allo specchio. Era davanti al suo cellulare, sdraiata sul bordo della luce che emanava lo schermo.
La mano tremava leggermente, e il cuore batteva come un uccello pronto a volare via.
Aprì Facebook con un’identità fittizia, che riportava solo la prima lettera del suo nome. L’aveva creata due mesi prima, ma non aveva avuto il coraggio di usarla fino a quel momento.
Scorrendo il feed, si imbatté in il profilo di un uomo che non aveva mai visto, un amico di un’amica. La sua foto non era quella di un “bello artefatto”, ma di un uomo che sorrideva con occhi grandi, colmi di una triste nobiltà.
Nel suo profilo pubblico non c’era ironia né frivolezza… solo parole.
Parole che risvegliarono qualcosa in lei.
Lesse:
«Un bambino non ha bisogno di urla per capire, ma di un abbraccio che colga ciò che non viene detto.»
Poi:
«Non è un difetto essere semplici… il difetto è essere costretti a fingere per soddisfare un sistema cieco di tradizioni.»
Si soffermò a lungo su una frase pubblicata pochi giorni prima:
«Un uomo non cerca una donna bella, ma una donna che capisca che la bellezza nasce dalla sincerità tra mente e cuore.»
Qualcosa tremò nel suo petto.
Come se qualcuno avesse scritto quella frase proprio per lei.
Come se finalmente qualcuno avesse ascoltato quel richiamo antico dentro di lei… non il richiamo del corpo, ma quello che dice: «Guardami… sono qui… una donna completa, fatta di carne, pensieri e sogni.»
Trascorse più di un’ora a leggere i suoi post…
Sulla moderna educazione dei figli, sulla filosofia esistenziale, sulla società che soffoca l’amore in nome della vergogna, sulle donne sepolte vive nelle case eleganti.
Quando chiuse il cellulare, Sopina non era più la stessa di un’ora prima.
Qualcosa era cambiato.
Qualcosa di lieve, ma vivo.
Come se la luce blu dello schermo avesse fatto germogliare nel suo petto un fiore… in attesa di qualcuno che lo annaffiasse.

Un piccolo pulsante… e un mondo sconosciuto
L’orologio segnava poco dopo mezzanotte.
La casa era silenziosa, le finestre chiuse, ma la vera finestra da cui Sopina osservava il mondo era quella che emanava dal piccolo schermo del suo telefono.
Scorse il profilo un’ultima volta, controllò foto, post, lista amici, e si fermò su un piccolo pulsante in alto:
“Aggiungi amico.”
Lo guardò a lungo.
Il pulsante era grigio, tranquillo, non brillava, non urlava, eppure le sembrava una porta socchiusa verso qualcosa che non conosceva del tutto… un’avventura che avrebbe potuto liberarla… o distruggerla.
Chiuse gli occhi per un istante.
Nella sua mente scorrevano immagini intrecciate:
le urla del marito, il suo bambino che rideva mentre le pettinava i capelli, sua madre il giorno del matrimonio che la piangeva in silenzio, e poi… lei stessa, in un abito bianco, con un sogno spezzato prima ancora di poter dire “sì”.
Aprì gli occhi.
Premette il pulsante.
“Richiesta di amicizia inviata.”
Non successe nulla. Nessuna esplosione, nessun terremoto.
Eppure il suo cuore sembrava saltare da un abisso senza sapere se avrebbe volato o caduto.
Ingoiò saliva.
Chiuse il telefono di colpo, come se temesse che quell’azione potesse propagarsi nell’aria, fino alle stanze della casa, al marito addormentato, alla suocera esperta nello spiare.
Ma, per la prima volta dopo anni, sentì qualcosa che assomigliava… alla libertà.
Come se si fosse strappata da un piccolo vincolo, da un sudario sottile ma soffocante.
Strinse il cuscino, senza sapere se fosse paura o eccitazione.
Tutto ciò che sapeva era che non era più la stessa donna che aveva premuto quel pulsante.

L’approvazione
All’alba, quando i fili di luce si insinuarono timidamente tra le tende pesanti, Sopina si svegliò in modo insolito.
Non furono le lacrime della piccola a destarla, né il rumore della cucina dove la suocera iniziava i suoi rituali quotidiani.
Qualcosa di invisibile, invece, aveva risvegliato il suo cuore… come un orologio segreto che attendeva qualcosa… ignoto, eppure inevitabile.
Prese il telefono con esitazione, respirando più con cautela che con fretta.
Aprì l’app… nessuna notifica evidente, eppure scorrendo la pagina sembrava camminare verso un incontro segreto, i cui contorni vedeva solo lei.
E lì…
Il cuore le si fermò per un istante.
“X ha accettato la tua richiesta di amicizia.”
Una frase piccola, neutra, eppure le sembrava:
“Benvenuta in una nuova vita.”
Si fermò.
Nessun messaggio da lui, ancora.
Ma l’approvazione da sola era già un riconoscimento della sua esistenza, una dichiarazione silenziosa che ora faceva parte del suo universo digitale, almeno in senso simbolico.
Rivide la sua foto. Il sorriso aveva qualcosa di familiare e misterioso, come se l’avesse già visto… non in un volto maschile, ma in un sogno antico su un uomo capace di ascoltare davvero.
Voleva scrivere il primo messaggio, ma esitò.
Scrisse, cancellò, riscrisse:
“Buonasera… non so perché ti abbia inviato la richiesta, ma qualcosa nelle tue parole mi ha fatto sentire come se ti conoscessi.”
La prima risposta
Poi si fermò…
cancellò tutto.
Scrisse invece:
“Grazie per aver accettato la richiesta, le tue parole sono profonde.”
E inviò.
Chiuse il telefono.
Nessuna risposta immediata.
Eppure il suo cuore si alleggerì un poco…
come se avesse versato metà del dolore in due sole parole, e capito che il mondo era più grande del suo silenzio, e che a volte la comunicazione inizia con una parola… ma non finisce lì.
La prima risposta
Passarono tre ore…
tre ore di attesa mescolate a un dubbio leggero, con il cuore che accelerava ogni volta che il telefono vibrava, senza che fosse lui.
E poi…
finalmente, una notifica.
Un messaggio dal suo nome.
Breve.
Lo aprì con mani leggermente tremanti.
“Ciao amica mia,
grazie per il messaggio, sono felice che le mie parole abbiano trovato un’eco in te.
Scrivo spesso perché non trovo a chi dire ciò che penso… forse tu sei la prima a notarlo.
Anche tu scrivi?”
Lo lesse due volte… poi tre.
Tra le righe, qualcosa somigliava a una confessione; dopo il punto interrogativo, un invito silenzioso a confidarsi.
Inspirò profondamente.
Sapeva che se avesse risposto, avrebbe aperto una porta…
ma era stanca delle porte chiuse.
Si alzò.
Andò allo specchio.
Si guardò.
E nei suoi occhi si leggeva la domanda:
“Inizio o mi fermo?”
Eppure, nel suo cuore, la risposta era già scritta, da quando aveva premuto “Invia richiesta di amicizia.”
Sì, aveva cominciato.
La prima risposta di Sopina
Questa volta non esitò.
Come se il messaggio ricevuto, con la sua delicatezza, avesse tolto il mantello di paura che portava sempre con sé.
Si sedette e cominciò a scrivere:
“Ciao, credo di capire perfettamente ciò che intendi quando dici che scrivi perché non trovi a chi dire ciò che pensi.
A volte le nostre voci sono più forti sulla carta che nella realtà.
Sì… scrivevo, e continuo a farlo.
Nei miei vecchi diari ho trovato frasi simili a quelle che scrivi, come se io fossi arrivata prima di te, o tu prima di me… non so.
Credi che ci siano persone che scrivono gli stessi pensieri perché si somigliano, senza mai incontrarsi?”
Lesse il messaggio un’ultima volta.
Sentì un calore che non provava da tempo.
Non era il calore di un uomo… ma il calore di un incontro intellettuale, il calore di sentirsi vista oltre il silenzio.
E lo inviò.
Senza esitazione.
Senza cancellare nulla.
Si sedette ad aspettare.
Ma stavolta… l’attesa non pesava.
Sembrava piuttosto la certezza che il messaggio sarebbe rinato… in un cuore che le somigliava.
Somiglianza di anime
Questa volta non tardò.
Era come se stesse aspettando anche lui il suo messaggio, o come se qualcosa in lui si fosse acceso nel vedere il suo nome illuminare lo schermo.
Lesse lentamente, riga dopo riga, come per accarezzare ogni parola.
Dentro di sé, una corda vibrò.
Dopo un silenzio breve, iniziò a scrivere:
“Strano ciò che dici…
anzi, troppo bello per essere solo una coincidenza.
Il fatto che tu abbia scritto nei tuoi diari parole simili alle mie di oggi… mi fa pensare che a volte non siamo noi a scegliere le parole, ma loro a scegliere noi, aspettando il momento giusto per unirci.
Sì, credo che le anime che si somigliano pensino nella stessa lingua, ancora prima di conoscersi.
Vorrei leggerti, se me lo permetti…
Non per curiosità, ma per capire se questo legame che sento è reale.”
Scrisse, esitò un istante prima di inviare.
Poi una voce interiore gli sussurrò:
“Se non scrivi ora… non saprai mai chi è questa donna che ti scrive prima ancora di conoscerti.”
E inviò.
Appoggiò il telefono di lato e chiuse gli occhi, come per immaginare la risposta invece di vederla.

A te, donna che dormiva in me
Aprì il suo vecchio quaderno, sfogliò lentamente le pagine.
Lì, in una grafia ancora giovane, tremante come scritta al buio delle emozioni, trovò la lettera.
La lesse in silenzio.
Poi la copiò, senza modificarla, e la inviò con un breve messaggio:
“Questa è la prima lettera che ho scritto a quella donna che una sera si è svegliata dentro di me…
Avevo sedici anni, e non sapevo perché piangevo né da dove venisse questo bisogno.”
E subito dopo il testo:
*”A te, donna che sei in me…
Perché sei arrivata così tardi?
Dov’eri quando ridevo e dicevo a tutti che non avevo bisogno di niente?
Perché non mi hai sussurrato che ciò che sentivo non era follia ma fame?
Fame di essere vista come donna… non come figlia, non come sorella, non come un dovere da compiere.
Sai quante volte ho avuto paura di guardarmi allo specchio?
Non perché fossi brutta… ma perché temevo di incontrarti,
di vedere quello sguardo che chiedeva vita, amore, sicurezza… e trovava solo silenzio.
Ti scrivo ora per dirti:
se torni, questa volta ti ascolterò.
Non ti metterò più a tacere, anche se urlerai.”*
Concluse con questa frase:
“Questa ero io… la prima volta che ho sentito di essere più di una ragazza che deve compiacere gli altri.
Dimmi… assomiglia questa donna che le scriveva, alla donna che ti sta leggendo ora?”

Quando hai parlato, io sono nato
Lui lesse e rimase immobile per un minuto intero.
Come se le sue parole gli fossero scese dagli occhi al petto, rimettendo in ordine i suoi organi interni.
Tornò al telefono, scrisse in modo incerto, poi cancellò.
Scrisse di nuovo, questa volta dal cuore, non dalla testa:
*”Non so cosa dire…
ma so cosa sento.
Sento di essere stato davanti a una porta chiusa per tutta la vita,
una porta con scritto ‘Qui abita la donna’
e non ho mai osato bussare.
Ora tu non solo me la apri… mi fai entrare
in una stanza di luce, di desiderio, di verità,
una stanza che somiglia alla tua prima preghiera,
quella che hai scritto a te stessa.
Quando hai promesso di non metterla più a tacere…
ho sentito che anch’io stavo nascendo.
Non come uomo che ti vuole corpo,
ma come uomo che vuole pensarti,
sentirti… prima di toccarti.”*
Si fermò un istante e aggiunse:
“Ti prego…
non smettere di scrivermi.
Perché ogni tuo messaggio
mi educa di nuovo…
come uomo che merita di essere capito da una donna come te.”
Davanti allo specchio
Era davanti allo specchio, tremava, ma non di paura.
Il suo corpo sapeva che qualcosa era cambiato.
Le labbra si contraevano e si distendevano, come se si allenassero a sorridere non davanti agli altri, ma davanti a se stessa.
Non volle rispondere subito, ma sentì le parole chiamarla.
Si sedette, strinse il telefono come si stringe un cuore vivo, pulsante, dentro il quale batteva l’anima di un uomo che capiva.
E scrisse:
*”Il mio specchio era estraneo a me…
Ogni volta che mi guardavo, vedevo ciò che piaceva agli altri:
i miei capelli come li volevano,
i miei occhi come li desideravano spenti,
il mio vestito come mi dicevano: «Bello».
Ma stamattina…
non ho visto nulla di tutto questo.
Ho visto me.
Ho visto una donna uscita dal grembo del silenzio,
che prima ha pianto, poi ha riso,
poi mi ha sussurrato:
(Mi ha sentita qualcuno, finalmente… non fermarti).”*
Si fermò un attimo, asciugò una lacrima leggera sulla guancia e continuò:
“Dici che ti educo…
ma sei tu, signore, che mi riscrivi.
Non hai toccato la mia mano, non mi hai vista,
eppure ti sei avvicinato più di qualunque corpo che mi abbia mai conosciuta.
Perché non mi vuoi eco di femminilità,
ma specchio della tua virilità nascente.”
E concluse:
“Ti scriverò,
non per sedurti… ma per liberarti.
E ti confiderò,
non per prenderti… ma per mostrarti ciò che nessuno ha visto prima di te.”

Quando il cuore abbraccia la rinascita
Lui rimase in silenzio, contemplando le sue parole come note delicate che scuotono le corde del cuore.
Non erano messaggi normali, ma tremiti d’anima, germogli di una speranza nuova.
Scrisse lentamente, come se ogni lettera fosse pronunciata dal fondo del petto:
*”Amica mia, tu non sei una donna a cui si scrivono storie…
tu sei una storia che si vive, che si sente, che si guarda con gli occhi dell’anima.
Le tue parole non sono semplici lettere, ma gocce di pioggia che ridanno vita a una terra assetata,
che restituiscono alla donna che credevi perduta
vita, luce e libertà.
Io non voglio essere solo colui che ti legge…
ma colui che ti accompagna in questo viaggio,
dove ogni giorno nasce qualcosa di nuovo dentro di te, e dentro di me.
Quello che c’è tra noi non è un incontro fugace,
ma l’incontro di due anime che vogliono vivere insieme,
non entro i muri delle costrizioni,
ma nello spazio della misericordia, della verità e del rispetto.
Ho bisogno di te…
non come donna in un corpo,
ma come spirito libero che merita di essere amato in tutti i suoi colori e sogni.”*
Poi aggiunse:
“Tu risvegli in me una virilità che non conoscevo,
una virilità che non ha paura della tenerezza,
che non nasconde la propria fragilità,
ma la accoglie e la abbraccia.”
E chiuse il messaggio:
“Amica mia, scriviamo insieme questo capitolo,
in una lingua che solo il cuore sa capire.”
Silenzio di contemplazione… nascita di una nuova virilità
Era solo nella sua stanza, immersa nelle ombre della notte.
Il telefono gli pesava tra le dita, ma lo schermo restava spento.
Una voce interna – più calda, meno ruvida del solito – gli mormorava qualcosa di nuovo.
Chiuse gli occhi: le parole di Soubina tornavano a galla una per una, lampade accese nel suo buio.
Non cercava una donna per riempire il vuoto.
Cercava un’anima che condividesse con lui l’umanità e la virilità insieme.
Domande che non aveva mai osato affrontare gli scivolarono nel cuore:
l’aveva davvero conosciuta?
Era mai stato un uomo?
Può l’ammirazione diventare nascita?
Sospirò, un misto di paura e curiosità gli attraversò il petto.
Ma ricordò la promessa fatta a se stesso: essere diverso.
Un sogno sepolto, improvvisamente, gli appariva vivo davanti agli occhi.
Sollevò di nuovo il telefono senza scrivere nulla.
Scelse invece di restare lì, in silenzio, a dialogare con sé stesso,
aspettando il momento in cui le maschere sarebbero cadute e la verità sarebbe emersa.
Era l’inizio di un viaggio.
Un viaggio non solo con Soubina, ma dentro di sé.

Tra due sincerità
Era quasi l’alba, le due di notte si avvicinavano lente.
La finestra di chat su Facebook pulsava di una luce fioca.
Messaggio da lui:
«Amica mia… sei ancora sveglia?»
Risposta dopo pochi secondi:
«Non dormo più, da quando ho iniziato a leggermi nel tuo specchio.»
Il tempo rallentava.
Le anime parevano tastare il terreno prima di avanzare.
Lui scrisse:
«Mi sembra che tu mi stia restituendo la voce… quella voce che ho perso nel rumore della vita, dell’uomo che credevo di essere.»
Lei rispose:
«E io sento che sto ritrovando la mia femminilità… non come oggetto di sguardi, ma come donna ascoltata nel suo battito, accarezzata nella sua voce, letta come si legge una preghiera.»
Lui rimase a lungo sulle sue parole, poi digitò lentamente:
«Sai una cosa? Quando ti leggo… ho paura.
Non di te.
Ma di tutto l’amore che mi è sfuggito e dell’uomo addormentato dentro di me che ora si risveglia al calore delle tue parole.»
Lei tacque un istante, poi scrisse:
«Vuoi leggere la prima lettera che ho scritto alla mia “altra me” il giorno in cui mi sono svegliata per la prima volta, a sedici anni?»
Lui rispose:
«La desidero come il pane della madre per un affamato…»
E lei iniziò a copiare quelle righe antiche, come estraendo dal cassetto dell’anima una pagina ingiallita ma ancora viva del suo primo respiro.

Lettera alla mia Femmina interiore – 1990
Cara femmina che abiti in me,
perché ti sei svegliata all’improvviso?
Perché piangi in silenzio quando il rumore della classe si alza?
Perché tremi nel mio petto ogni volta che vedi una donna camminare con quella libertà che noi non abbiamo?
Perché…?
Ti scrivo e non so nemmeno come parlarti.
Non sei un’amica, né mia madre, né mia sorella con cui divido la stanza.
Sei altro…
un segreto nel mio petto che nessuno conosce, che io stessa non oso nominare.
Sai?
A volte sento di essere nata per essere più di una “brava figlia di famiglia”.
Più di una “sposa che aspetta il suo destino”.
Più di una “madre di figli perbene”.
Più di “un’ombra d’uomo”…
Sento di essere nata per essere donna.
Sì, donna come un’idea, non solo un corpo.
Donna da guardare come si leggono le poesie, non come si cuciono gli abiti.
Donna di cui capire il silenzio, non di cui interpretare i desideri.
Resterai zitta dentro di me?
O un giorno uscirai a dire:
“Eccomi… merito di essere vissuta come donna intera”?
Da oggi ti scriverò ogni sera.
Perché tu non torni a dormire dentro di me.
Perché la vita non ti trascini via e ti faccia dimenticare chi sei.
Perché tu non diventi un ricordo in un quaderno d’infanzia.
Ti amo…
e non permetterò a nessuno di ucciderti dentro di me.
– Soubina
(ragazza di sedici anni che ha scoperto la sua femminilità senza dirlo a nessuno)

L’uomo che entrò nel testo
Lesse… e tacque.
Rilesse una seconda volta.
Poi una terza… ma non con gli occhi: con le dita tremanti, come se accarezzasse un muro di nostalgia lontana.
Le scrisse:
«Soubina… quello che ho letto non è un foglio.
Era il tuo cuore prima che si chiudesse.
Era una porta piccola che bussavi ogni sera senza che nessuno te l’aprisse…
Io sono arrivato tardi, lo so… ma ora ci sono.»
Aggiunse:
«Non so come rispondere a una ragazza di sedici anni che scrive con questa lucidità…
se non chiedendo scusa a lei, e a ogni donna messa in uno stampo che non ha scelto, a cui è stato detto: questo è il tuo destino.»
Poi scrisse ancora:
«Credevo di essere uomo da tempo, ma mi rendo conto ora…
che la virilità non comincia quando ti chiamano “forte”, ma quando riesci a leggere una donna, piangere nel suo silenzio, e prometterle che non la lascerai più sola.»
E le chiese:
«Mi permetti…
di scrivere anch’io su quel quaderno,
di lasciare un messaggio all’uomo che ero…
per dirgli: il tuo ruolo è finito, lasciami iniziare da capo?»
E concluse:
«Non ti prometto solo comprensione, ma ascolto.
Perché tu, Soubina, non meriti una comprensione simile a quella che hai già visto…
ma una comprensione che ti sollevi, come tu ora ti stai sollevando dalle macerie.»

Come seduti sopra un quaderno
La sua voce rimbalzava ancora nel cuore di Soubina, e lei gli scrisse:
Soubina:
«Sai?
È la prima volta che non sento di scrivere per essere letta soltanto…
ma per essere capita.
Con calma. Senza giudizio.
Scrivevo nel mio quaderno come se sussurrassi allo specchio, non a qualcuno.
Oggi… sento che lo specchio ha parlato, e la sua voce è la tua.»
Un silenzio breve… poi lui rispose:
Lui:
«Soubina…
io non ti ascolto soltanto… io ti sto ascoltando con tutto me stesso.
Come se ogni tua lettera fosse un’arteria nuova nel mio corpo.»
Soubina (leggera e seria insieme):
«Ma non essere galante.
Non ho bisogno di un uomo che mi lusinghi perché sono ferita…
ma perché sono viva. Perché sto rinascendo.
Non voglio una mano che mi tenga perché inciampo… ma perché corro, e voglio correre insieme, non dietro.»
Lui sorrise, come se avesse ricevuto un consiglio da un uomo saggio:
Lui:
«Allora lasciami correre al tuo fianco.
Non davanti.
Non dietro.
E ti giuro…
non scriverò su di te, ma con te.
Perché tu non hai bisogno di descrizioni, ma di condivisione.
Ogni tua parola mi rende più semplice… e più profondo.»
Soubina (in silenzio, come se sussurrasse al vecchio quaderno):
«Ecco, vecchia femmina che eri in me…
qualcuno finalmente ti ascolta.
Non per rinchiuderti, ma per liberarti.»
Lui (le chiese):
«Vuoi che apriamo un quaderno nuovo?
Senza passato, senza giudizi… solo ciò che scriviamo ora, insieme?»
Soubina (con occhi lucidi che nessuno conosce):
«Sì… ma questa volta lasciami scrivere io la prima pagina.»

Dal nuovo quaderno di Sobina
Serata d’autunno.
A colui che ancora non so come chiamare…
Questa pagina non è una lettera d’amore,
né una confessione.
È il palmo di una donna che si apre alla luce,
dopo essere stata stanca del buio.
Non cerco più qualcuno che mi salvi,
ma chi veda che mi sono salvata da sola
e mi stringa la mano per questo.
Ho scritto tanto a me stessa…
ho pianto sulla carta,
ho dormito sopra l’inchiostro…
Ma stasera scrivo con un risveglio strano nel cuore.
Non ho paura,
non piango…
sono sveglia.
Sai qual è la cosa più bella di questo risveglio?
Che non voglio qualcuno che “mi prenda”,
ma chi “cammini con me”.
Chi veda nel mio corpo una casa, non un letto,
nelle mie idee un’ala, non una nuvola che passa.
Io, uomo o donna che tu sia,
sono una donna che non vuole essere desiderata per la bellezza,
ma per il battito, le domande,
la voce che sussurra alla vita di tornare.
Non per dirti “ti amo”…
ma per dirti: se senti tutto questo in me, resta.
E se non lo senti,
non spegnere la luce che finalmente brilla nei miei occhi.
Questa è la mia prima pagina…
scritta non per piacerti,
ma per assomigliare a me stessa.
Se ti piace, forse mi assomigli.
Sobina
Dal cuore che si risveglia
Sobina…
Non so da dove cominciare.
E non so come delle parole scritte possano assomigliare a una donna che nasce.
Ma leggendo la tua prima pagina ho avuto l’impressione di guardare non nel tuo quaderno,
bensì in una pagina della mia stessa anima.
Quello che hai scritto non era una frase,
era un battito.
E non tutti quelli che leggono i battiti riescono a sentirli.
Io, invece, ho sentito il tuo cuore battere dentro di me.
«Non voglio qualcuno che mi prenda, ma qualcuno che cammini con me»…
questa frase mi scuote ancora.
E io ti dico:
non ti prometto di camminare davanti a te,
né dietro di te…
ma accanto a te.
E se inciampi,
non ti tenderò solo la mano,
ma il cuore, per portarti dentro di me.
Tu dici che non cerchi chi ti ammira, ma chi ti assomiglia.
Io ti rispondo:
non cerco una somiglianza tra noi,
ma una sincerità che passi da me a te senza maschere.
E quella tua ultima frase…
quando hai scritto: «Se ti piaccio, forse mi assomigli»,
mi è uscita dal cuore, senza accorgermene, questa voce:
«No, io ti vedo… e comincio finalmente a somigliare a me stesso.»
Scrivi, Sobina,
non perché il mondo ti veda,
ma perché tu possa vedere te stessa,
come hai cominciato a fare in questa pagina.
Io sarò, se lo vuoi,
il tuo specchio che non ti abbellisce,
ma ti restituisce la verità.
Sono qui.
Non ho fretta di sentire.

Era una sera morbida,
come se la notte fosse venuta a posare la mano sul suo cuore
non per far tacere il dolore,
ma per cancellarne la paura.
Sul piccolo schermo blu apparve il nuovo messaggio,
semplice nell’aspetto, profondo nel senso:
– Sobina… a quale anno di scuola ti sei fermata prima del matrimonio?
Rispose dopo un istante di esitazione:
– Ero al terzo anno del liceo classico.
Ma non ho fatto l’esame…
Il matrimonio, come sai, è arrivato presto.
Dopo qualche secondo scrisse:
– Allora ti sei fermata sulla soglia di un sogno incompiuto.
Sai, Sobina?
Le donne più vive sono quelle che non hanno finito la strada,
ma desiderano ancora percorrerla.
Tacque.
Le sembrava che lui le avesse messo davanti uno specchio mai visto prima:
non per guardare il suo volto,
ma per scorgere l’ombra del sogno che la attendeva dietro le spalle.
Aggiuse:
– Che ne pensi di tornare a studiare?
Di riprendere il liceo…
Non per avere un diploma,
ma per rialzarti con la testimonianza di un sogno antico.
Hai appena trent’anni,
e l’età, amica mia, non si misura in anni,
ma nel numero di volte in cui trovi il coraggio di ricominciare.
Sorrise,
le scivolò una lacrima senza accorgersene,
poi scrisse:
– Penso adesso… e se potessi davvero?
E se tornassi a studiare?
Che donna nascerebbe da me?
E tu… saresti l’origine di due nascite:
di una donna e poi di una studentessa?
Lui rispose subito:
– Sei tu stessa la nascita.
E chi partorisce sé stessa può dare vita a un futuro che non somiglia più al passato.
Due quaderni sullo stesso tavolo
Nell’angolo della stanza, Solina stava sfogliando i suoi quaderni nuovi. Con la grafia inclinata scriveva il titolo della prima lezione di fisica. Il suo sguardo era un po’ lontano, ma cercava di concentrarsi.
Soubina entrò in silenzio, portando due tazze fumanti di tisana e un sorriso timido, diverso dai sorrisi consueti delle madri. Posò una tazza accanto a Solina e si sedette davanti a lei.
«Grazie, mamma… fa un po’ freddo oggi» mormorò Solina, senza alzare la testa.
Soubina accennò un sorriso, poi disse piano:
«Solina…»
«Sì, mamma?»
«Ho pensato di studiare con te quest’anno.»
Solina alzò lo sguardo di scatto: negli occhi un lampo improvviso, come un filo di luce in una stanza buia.
«Studiare cosa?!»
Soubina rise sottovoce:
«La maturità… quella umanistica.»
«Tu?! Mamma! Davvero?»
Lei annuì lentamente, come se leggesse ad alta voce il manifesto di una nuova vita:
«Sì, io. È da tanto che ci penso, ma non ho mai avuto il coraggio.
Questa volta… qualcuno mi ha incoraggiata. Non importa chi sia, quello che conta è che mi ha dato la spinta. E io… voglio provare.»
Solina tacque un istante, poi sorrise con malizia lieve:
«Fantastico, mamma. Ma promettimi che, quando studierai, non copierai!»
Risero insieme, una risata piccola, con dentro qualcosa di infantile, come due compagne di banco.
«Che ne dici di studiare insieme?» propose Soubina.
«Ognuna con i propri quaderni, ma ripassiamo insieme ogni giorno.»
Solina annuì con entusiasmo improvviso:
«Sì! Facciamo anche un programma di studio, e risolviamo gli esercizi insieme!»
«Però tu devi prendere un voto alto… non voglio metterti in imbarazzo.»
Soubina allungò la mano, sfiorò il quaderno della figlia e sussurrò:
«Sai, Solina…
Mi è mancata un’amica come te. Non solo una figlia.»
Solina la guardò, poi si avvicinò e l’abbracciò forte, come per incoraggiarla dal profondo, sussurrando senza parole:
“Comincia… io sarò con te.”

Quando ho riscritto il mio nome
Un suo messaggio:
«Sai cos’ho fatto oggi?
Ho riscritto il mio nome… sul modulo d’iscrizione a un centro per la maturità.
Quasi avevo dimenticato la forma della mia firma.
E come si fa a mettere un obiettivo in fila e camminarci sopra.
Ma mentre firmavo… ho sentito che stavo firmando una nascita nuova, non solo un’iscrizione.»
La sua risposta, con un brivido che gli saliva fino agli occhi:
«Soubina…
Non so come descriverlo,
ma oggi hai salvato qualcosa anche dentro di me.
Scrivere il tuo nome con la tua mano,
dopo tutti questi anni in cui hanno scritto di te, non per te…
Scegliere tu una strada nuova,
non imposta, non deformata, non rubata alla tua femminilità…
non è un’iscrizione a una classe, ma un atto di esistenza.»
Un altro suo messaggio, con negli occhi un pudore nuovo, non di debolezza, ma di verità ritrovata:
«Tutto questo… tutto ciò che sono ora,
è nato da una sola frase che mi hai detto la prima volta:
Non ti prometto di capire, ma di ascoltare.
Avrei potuto continuare la mia vita in silenzio.
Ma forse… la mia voce, che credevo scomparsa, stava aspettando qualcuno per farsi sentire.»
La sua risposta, scritta come una carezza che le sfiora il cuore:
«E poiché la tua voce è uscita…
ora ti faccio una promessa nuova:
non camminerò davanti a te, né dietro, ma accanto.
Ogni volta che aprirai una pagina, sarò il margine.
Ogni volta che metterai una virgola, aspetterò la tua pausa…
per dirti: scrivi, perché ora sei te stessa.»
Momento della nascita
Soubina sedeva in silenzio, tra le mani un quaderno nuovo, dalla copertina semplice ma solida, con un titolo decorato in rilievo:
“Questa sono io”
La penna tremava leggermente nella sua mano, come se temesse di sbagliare le prime parole.
Inspirò a fondo, chiuse gli occhi per un istante, richiamando nella mente le parole di quell’uomo, le sue promesse di ascolto e di presenza al suo fianco.
Aprì una pagina bianca e iniziò a scrivere:
“Non sono solo una donna che reclama i suoi diritti, sono la mia voce… la mia lealtà… il mio sogno… e il primo passo sulla mia strada.”
Poi sorrise, e con una scrittura più decisa aggiunse:
“Oggi sono rinata… questa sono io.”

Nomi che raccontano una storia
Soubina era seduta nel soggiorno, circondata dalle sue quattro figlie, i piedi raccolti sotto di loro sul tappeto morbido, gli occhi pieni di curiosità e di attenzione.
Con un sorriso caldo disse:
“Sapete, ognuna di voi porta una parte del mio nome…”
Guardò Solina, la maggiore:
“Solina, tu sei la speranza pura, l’inizio della storia… come la lettera ‘S’ del mio nome.”
Poi indicò Bina, dolce e calma:
“Bina, cuore e anima della famiglia, come la ‘B’ che pulsa dentro di me.”
Gli occhi di Neda, sensibile e piena di grandi sogni:
“Neda, la voce dei sentimenti e della dolcezza, come la ‘N’ che abbraccia la mia anima.”
Infine, la piccola e vivace Naya:
“E Naya, fiore della vita, come la ‘Y’ che illumina il mio cammino.”
Sospirò, abbassando la voce:
“E ora… dopo tutti questi anni, è il momento di scrivere la mia storia… la mia storia, quella che non si è ancora compiuta come avrei voluto.”
Le ragazze si scambiarono uno sguardo, ciascuna con un pensiero diverso negli occhi, un filo di speranza nascosta, e forse anche un po’ di timore per ciò che sarebbe venuto.
Solina disse incoraggiante:
“Mamma, siamo con te… qualunque sia la strada.”
Bina aggiunse:
“Scrivere apre le porte del cuore, e noi vogliamo conoscerti di più.”
Neda sussurrò:
“E io credo che tu meriti di sognare ancora di più.”
E Naya, con un sorriso innocente:
“E io sarò la prima a leggere il tuo quaderno!”
Soubina sorrise, colma di gratitudine. Sentì che quel momento non era solo un nuovo inizio per lei… ma per tutte loro.
Rifiuto categorico
Soubina sedeva nel soggiorno, gli occhi accesi da un nuovo sogno, una luce tenue che brillava dall’interno, quando suo marito entrò silenzioso. Il suo volto era serio, privo di qualsiasi traccia di sorriso.
Si sedette di fronte a lei, con voce dura:
— Soubina, abbiamo tutto… denaro, casa, figli. Cosa vuoi di più?
Soubina sollevò gli occhi verso di lui, cercando di spiegarsi, ma la sua voce la interruppe:
— Non voglio che tu pensi a studiare, aprire quaderni o scrivere di cose inutili.
Sussurrò lentamente:
— Ma io ho bisogno di vivere… di essere qualcosa di più di una donna in casa.
Lui strinse le labbra, la voce che si faceva più dura:
— Questa è la tua casa, i tuoi figli, tuo marito… non c’è tempo per illusioni che non cambiano nulla.
Le lacrime le brillarono negli occhi, ma Soubina non arretrò. Con fermezza disse:
— Le illusioni sono ciò che mi ridà l’anima… e senza di esse, non resta nulla di me.
Lui annuì, freddo:
— Allora qui non c’è posto per queste idee.
Si alzò e si avviò verso la porta, lasciandola sola con i suoi quaderni, in un silenzio denso, pulsante di paura e sfida.

Una voce che pulsa di vita
Soubina rimase sola in un angolo della stanza, il quaderno nuovo aperto davanti a sé, ma il suo cuore ruggiva in silenzio, spingendola a rialzarsi.
Inspirò profondamente e disse a se stessa:
— Non sono un oggetto, né un peso… sono un essere umano che merita di vivere e respirare.
Si alzò lentamente, guardò nello specchio la sua immagine stanca, e una scintilla di ferro brillò nei suoi occhi.
Sussurrò con voce decisa:
— Completerò i miei studi, finirò il liceo classico, aprirò nuove porte, non solo per me, ma per i miei figli, affinché possano essere orgogliosi.
Sollevò la penna e iniziò a scrivere nel suo quaderno:
— Non permetterò a nessuno di rubarmi i sogni. Questa sono io… e questa è la mia voce, che non sarà mai spenta.
Chiuse il quaderno con forza, e in quel momento capì che il viaggio era davvero iniziato, e che non sarebbe tornata indietro, qualunque tempesta dovesse affrontare.

Tra sogno e realtà
La sera scendeva morbida sulla finestra della chat. Soubina aveva spento le luci della casa e i rumori del mondo si erano ritirati; rimaneva solo il bagliore della passione nei suoi occhi.
Soubina:
«Gli ho detto che avevo deciso di tornare a studiare… e si è arrabbiato. L’ha detto chiaro: “Ho tutto, non mi serve una moglie che divida il tempo tra quaderni ed esami!”
Come se avessi gravato su di lui semplicemente sognando.»
Pochi istanti e la sua risposta comparve, un piccolo punto verde sul cuore dello schermo.
Lui:
«Era prevedibile che rifiutasse, perché ti vede solo in un ruolo. Ma tu sei più di un ruolo, Soubina… sei una vita intera. Ascoltami… non sfondiamo il muro, entriamo dalle fessure.»
Soubina:
«E come? Non mi lascia uscire da sola… né incontrare qualcuno…»
Lui:
«Se davvero vuoi studiare, la porta resta aperta. E se sembra stretta, cerchiamo un istituto privato, una scuola libera con programmi più flessibili… persino lezioni a casa, se serve.
L’importante è iniziare, anche con un piccolo passo: prima studentessa libera, poi apri la strada con le tue capacità.
Quanto a tuo marito… conosci meglio di me i fili delle sue relazioni. Indaga tra chi non può rifiutarti, anche senza sapere l’impatto delle tue azioni.
È lì, nell’ombra, che si prendono le decisioni decisive.»
Soubina restò in silenzio, mentre lacrime di gioia improvvisa le rigavano il volto.
Soubina:
«Non avrei mai immaginato che qualcuno potesse pianificare per me così… temevo soltanto di sognare.»
Lui:
«Ora il mio sogno è che tu sogni.
Non dichiareremo guerra alla tua casa, risveglieremo solo una donna che nessuno vede… tranne me.»

Nella sua stanza dopo mezzanotte
Il silenzio avvolgeva la casa con il suo mantello grigio. Tutti avevano terminato la giornata, e i rumori si erano ritirati negli angoli dimenticati, ma un bagliore tenue ardeva ancora in una stanza solitaria.
Soubina si sedette al piccolo tavolo, davanti a lei un quaderno nuovo e il libro di letteratura araba per il terzo anno di liceo… lo aprì con cautela, come se stesse varcando una porta temporale dal passato assente.
Le dita scorrevano sulle parole, palpando una ferita antica ormai cicatrizzata, poi iniziò a scrivere con calligrafia incerta:
«Prima pagina: non è la lezione ciò che leggo, ma ciò che riscopro di me stessa.»
Il ritorno non era semplice. Titoli, capitoli, nomi… epoche passate che però non erano state cancellate dalla memoria.
Lesse un passaggio da “All’ingresso della rossa ci incontrammo”, si fermò a un verso, gli occhi che le si velavano di lacrime:
«E la poesia più dolce è quella che scorre dalla penna.»
— «Merito davvero di ricominciare a scrivere?» — sussurrò a se stessa.
Cominciò a leggere a bassa voce, memorizzando, annotando a margine:
«La domanda dell’esame sarà sull’immagine della donna nel testo… e io? Qual è la mia immagine nella mia vita?»
Il telefono vibrò con un messaggio del suo amico, come se avesse percepito la sua esitazione prima che lei inviasse qualcosa.
Lui:
«Come procede il primo viaggio?»
Soubina:
«Sento di mettere in ordine l’infanzia che mi fu rimossa… e provo a convincermi che sognare non è un crimine.»
Lui:
«Sognare è la più bella penitenza per una vita che non ti è stata scritta… studia, e io sarò il foglio che precede ogni lezione.»
Soubina sorrise, posò il telefono di lato e tracciò elegantemente sotto il titolo della lezione:
“Nuovo inizio”
Poi sussurrò:
— «Io sono Soubina… non la donna di ieri, ma la studentessa di domani.»

Messaggio vocale e scritto
La voce di Soubina era dolce, con una punta di stupore e nostalgia:
«Abir… non so se riderai di me, ma mentre tenevo in mano il quaderno di letteratura e prendevo appunti, ho avuto la sensazione di non essere seduta al tavolo della mia stanza… mi sentivo semplicemente una studentessa, pronta per un esame, con una penna nuova che tracciava linee come se scrivesse me stessa da capo, aggiungendo qualcosa di nuovo.
Tu mi dicevi sempre: “Soubina, sei più grande di tutte le circostanze”, e io ridevo e tacevo… ma oggi, mentre studio, sento davvero che non stavo mentendo a me stessa. Stavo solo aspettando questo momento.
Ora sono arrivata, Abir… forse in ritardo, ma sono arrivata.
Immagina… sono passata sulla definizione di metafora celata e ho scritto accanto: “Sono una metafora celata… hanno cancellato la donna e lasciato solo le qualità.”
Ti voglio bene… e so che sarai la prima a capire cosa voglio dire. Scusami per il tempo perso, ma sono tornata… sono di nuovo una studentessa, non solo una madre.»
Poco dopo, ha inviato un messaggio scritto, rapido:
«Abir… voglio davvero studiare! Davvero! E sono felice… studio per il baccalaureato, non per nessuno, solo per Soubina. Se potessi vedere la mia gioia mentre cerco di capire un testo e analizzarlo! So che la strada è lunga, ma il mio cuore ha già preso il via… e non posso continuare perché mio marito non vuole che finisca gli studi.»

Era un giovedì sera, e una leggera carezza di calore avvolgeva l’autunno tardivo, quando Abir bussò alla porta di Soubina, portando due scatole di dolci al latte e di pasticceria di Nablus, decorate con un nastro rosa.
Soubina la accolse con un volto che combinava la timidezza adolescenziale e la maturità materna, gli occhi brillanti dopo notti trascorse tra libri di retorica e grammatica.
Abir entrò sorridendo, sincera:
— Non avrei mai creduto che studiassi davvero… se non vedessi con i miei occhi! Guarda che luce!
Soubina arrossì leggermente e disse:
— Credimi, Abir… questi libri mi mancano più di molte persone. Aprendo il quaderno di arabo, ho sentito di respirare di nuovo.
Si sedettero al tavolo, tra l’odore della carta e della salvia bollita. Soubina allungò la mano verso la cucina:
— Preparerò il tè alla salvia… come sempre.
Abir, interrompendola dolcemente:
— Non serve… porta solo il vassoio e rilassati. Oggi ho una questione più importante del tè.
Mentre Soubina spariva in cucina, il marito sedeva in salotto, fingendo di scorrere il telefono, ma un’ombra di tensione tradiva il suo volto.
Abir parlò con voce bassa e calma, accompagnata da un sorriso rassicurante:
— Signor Abu Nizar… so che sei un uomo ordinato, e sarò diretta come sempre.
Il marito alzò lo sguardo:
— Prego.
Abir continuò:
— Perché impedirle di completare gli studi? Non è un suo diritto?
Il marito sospirò, con un velo di irritazione:
— Non sono contrario allo studio, ma ci sono priorità in casa… le bambine hanno bisogno di cure.
Abir sorrise:
— E non ha mai trascurato nulla. E poi… ricordi quando avevi chiesto a Riad, amico di mio padre, qualcosa che lui non aveva acconsentito?
Il marito si ritrasse leggermente:
— Forse… ma cosa c’entra?
Abir, con un sorriso fermo:
— C’entra molto. Ieri era qui, e mi ha detto chiaramente: “Abu Nizar è un uomo generoso, ma deve sapere che le mie richieste d’ora in poi sono rifiutate…” Poi ha aggiunto, guardando fugacemente me e mio padre: “A meno che tu o tuo padre non interveniate per il suo bene.”
Il marito sospirò e abbassò lo sguardo:
— Quindi credi che lo studio possa cambiare qualcosa?
Abir rispose con calma e chiarezza:
— Cambia tutto… ma per te, per la tua casa, e affinché tu sia parte della decisione. Nessuno ti forza, nessuno ti spinge. Dille tu stesso: “Vai avanti, e io sono con te.”
Soubina rientrò con il vassoio, lo posò senza notare nulla. Distribuendo le tazze disse:
— Avete parlato di qualcosa?
Il marito esitò, poi sorrise con timidezza rara:
— Abbiamo parlato. E voglio dirti qualcosa: continua a studiare, Soubina. Io ti sostengo… ma senza dimenticare la casa.
Soubina lo fissò sorpresa, poi le lacrime le rigarono il viso:
— Davvero?
Abir batté leggermente le mani:
— Sì! Vedi? Oggi l’ospitalità è diversa da ogni volta.
Soubina sussurrò:
— Grazie… per tutto.
Nell’ultima conversazione, dopo aver raccontato il suo traguardo, lui scrisse:
— Addio… non avere più paura… chi sa leggere sa anche vivere!
Soubina si sporse leggermente in avanti, passò il pollice sulle labbra come per cancellare un sorriso falso… o per ridisegnare il suo vero sorriso.

Si guardò di nuovo allo specchio
Alzò leggermente le spalle, con un gesto calcolato, come se stesse ascoltando una voce interiore che rimodellava il corpo nella sua postura.
Non era la più bella nello specchio…
Ma era la più sincera.
E questo… bastava.

Presentazione
Questo libro non è un romanzo nel senso tradizionale, né una semplice raccolta di riflessioni filosofiche. È un intreccio intimo di narrazione, confessione e meditazione emotiva, scritto con la voce di una donna che parla nel silenzio e cerca se stessa attraverso le parole. È un viaggio interiore che inizia da “Soubina”, donna che rappresenta ogni…

Parola finale
“Lettere a me stessa” non è una ricerca dell’amore, ma un atto di riconoscimento. Di vedere se stessa nello specchio, non con gli occhi degli altri, ma con uno sguardo che nasce dal cuore e che le è fedele.
Ogni testo qui è un messaggio sospeso tra silenzio e parola, tra ardore e rinascita, tra domanda e certezza.
E forse, nel suo cammino, Soubina cerca se stessa… o te… o voi.

 

Sulle soglie del sogno 01

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