Sulle soglie del sogno 04

Parte Quarta 04
Capitolo Sedici 16:
Il giorno seguente completarono i loro compiti in un silenzio rassicurante, come se tra loro fosse tacitamente inteso che la conoscenza fosse la barriera a protezione di tutto ciò che cresceva tra loro.
Dopo cena, si sedettero sul balcone a sorseggiare il tè nella compagnia della sera. L’autunno aveva steso su Damasco un velo dorato e silenzioso, in cui si udiva soltanto il fruscio delle foglie secche che sfioravano l’asfalto, come una scusa ritardata ma delicata.
Muna portò la tazza vicino alle labbra, e lo guardò con occhi dolci che non erano spenti dalle domande, e sussurrò quasi:
— «Hai riflettuto molto su quello che è successo con la tua famiglia… e con quell’amico, quel giorno?»
Numan annuì e rispose, la voce sfiorando un’eco che ancora vibrava dentro di lui:
— «Molto… più del dovuto. È come se la conversazione non fosse finita lì, ma fosse cominciata dentro di me subito dopo.»
Muna non rispose, lo guardò a lungo, come ascoltando ciò che avrebbe detto prima ancora che lo pronunciasse.
Numan continuò, come a far emergere ciò che per anni era rimasto chiuso dentro:
— «Credevo di aver superato quel momento… l’imbarazzo nella sala d’arte. Ma dopo aver parlato con te e con tuo padre, ho capito che non sono stato del tutto sincero con me stesso.»
Inclinò leggermente la testa, poi chiese con gentilezza, come una mano che sfiora una ferita antica:
— «In che senso, esattamente?»
Numan rispose, la voce carica di una sincerità maturata sotto il peso delle domande:
— «Ho sempre detto di essermi ritirato perché non ero pronto. Ma la verità più profonda… è che non ero in pace con me stesso. Non sapevo come essere libero senza sentirmi colpevole, né come esprimere il mio talento senza imbarazzarmi davanti a un corpo… o uno sguardo… o un’idea.
Non sapevo come essere un uomo che vede la donna non come un pericolo… ma come compagna di presenza.»
Muna abbassò la testa per un attimo, poi disse, come parlando alla voce che aveva detto più di quanto si potesse esprimere:
— «E ora… è cambiato qualcosa?»
Numan la guardò a lungo, con occhi in cui si vedevano ancora i segni di un inverno passato, e poi disse con calma, illuminato da una luce di confessione:
— «Sì… è cambiato. Perché ho scritto. Perché ho raccontato.
Non perché ho superato l’imbarazzo, ma perché gli ho dato un nome e gli ho detto: siediti. Ti vedo.»
Seguì un breve silenzio, rotto solo dal sussurro dell’albero di arancio vicino, che muoveva le foglie come per approvare ciò che era stato detto.
Poi Muna parlò, con voce calda, segnata da un piccolo luccichio di verifica:
— «E ora… come vedi, Numan?
La ragazza? O il mistero?»
Numan sorrise, poi allungò delicatamente la mano verso il suo quaderno, come per scrivere la prima riga senza paura, e disse:
— «Ti vedo… per quello che sei. E questa volta non voglio scappare.»
Lei rispose, stringendo la sua mano con dolcezza, come un affetto che sorprende l’amore stesso:
— «Non c’è bisogno di scappare…
questa volta scriviamo insieme… non siamo messi alla prova.»
Muna sollevò lentamente lo sguardo, sorridendo con un timido rimprovero caldo:
— «E io?
Io guardavo… e imparavo da te come si può perdere la strada che amiamo, senza perdere noi stessi.»
Numan guardò fuori, dove le foglie cadevano silenziose sui marciapiedi bagnati, e disse:
— «Forse… se non fosse accaduto ciò che è accaduto, non ti avrei conosciuta come ti conosco ora,
non avrei scritto ciò che ho scritto…
e non sarei stato me stesso.»
Muna si alzò, raccogliendo lentamente la sciarpa dal sedile, e disse, lanciandogli uno sguardo laterale:
— «Tutto ciò che è successo è stato l’introduzione a questo momento…
non rimpiangere nulla.
Scrivilo, come ci meritiamo.»
Numan si alzò lentamente e si avvicinò alla finestra. Rimase in silenzio per qualche istante, osservando le nuvole che scorrevano lente sopra i tetti, poi disse con voce bassa:
— «Una parte importante di tutto questo… riguarda te. E il modo in cui hai cominciato a vestirti da quando abbiamo iniziato a parlarci più spesso, a passare ore insieme, a confidarci tante cose.»
Muna si voltò verso di lui, le sopracciglia leggermente aggrottate, lo sguardo acuto ma non duro:
— «E cosa c’è nel mio modo di vestire? Il mio velo non ti piace?»
Avevano appena concluso una conversazione calda, di quelle in cui le anime si toccano più delle mani, quando Numan la spiazzò con una domanda che sembrava preludere a qualcosa di più profondo:
— «Non volevo dire nulla di offensivo. Ma lasciami chiederti… perché hai cominciato a vestirti così? Prima non lo facevi.»
Muna sollevò le sopracciglia, e con un filo di voce, quasi un sospiro, rispose:
— «Davvero non lo immagini? O fingi di non saperlo?»
Numan abbassò lo sguardo per un momento, poi mormorò:
— «Lo so… ma cercavo il modo giusto per parlarne, senza metterti in difficoltà.»
— «E adesso?», domandò lei, con gli occhi socchiusi, come se volesse arrivare dritta al cuore della questione.
— «Adesso ti chiedo solo questo: lo porti perché ci credi davvero? O lo fai per me?»
Lei lo fissò a lungo, come se volesse leggere dentro di lui. Poi disse, con una sincerità che le velava la voce:
— «Ti dirò la verità… all’inizio sì, lo facevo per te. Non ne ero convinta, ma volevo sentirmi a mio agio quando parlavo con te, guardarti negli occhi senza timore che ti allontanassi. Con il tempo… è diventato un’abitudine.»
Numan scosse piano la testa.
— «L’abitudine non basta. Ora… sei davvero convinta? O lo porti ancora per le stesse ragioni?»
Muna accennò un sorriso appena accennato.
— «Forse… un po’ per entrambe le cose.»
— «O forse c’è un terzo motivo?» chiese lui, fissandola con uno sguardo che cercava più del semplice senso delle parole.
— «E quale sarebbe, secondo te?»
Numan inspirò profondamente.
— «Non lo so. Ma ieri ho fatto visita a un caro amico. Stava litigando con sua moglie, e la questione era proprio… il velo.»
Muna sgranò gli occhi.
— «Il velo? Davvero? E perché?»
— «Quando sono arrivato, stavano discutendo in cucina, le voci così alte che ho pensato di andarmene. Poi lui mi ha detto che sua moglie lo indossa non per fede, ma perché ha sempre i capelli in disordine, e il velo le risparmia la fatica di sistemarli ogni giorno.»
— «E tu cosa stai cercando di insinuare?» disse Muna, stringendo le labbra.
— «Niente. Voglio solo capire cosa rappresenti per te… davvero.»
Muna sollevò lentamente il mento, come chi ha appena ricevuto uno schiaffo invisibile.
La sua voce tagliò l’aria come un vetro che si incrina:
— «Pensi forse che lo porti perché non mi importa del mio aspetto?»
Per un istante tacquero entrambi. L’aria si riempì di qualcosa che assomigliava a una fine.
Poi Muna, con la voce accesa da un orgoglio ferito, disse:
— «Basta, Numan. Non parlarmi più. Non cercarmi, né tu né tuo padre. Da ora in poi… ognuno per la sua strada.»
Muna si voltò senza dire una parola, sollevò lentamente il suo velo e uscì.
Dietro di lei rimase soltanto la terrazza, immobile sotto una luce d’autunno, e il volto di Numan, pietrificato, che fissava le foglie d’arancio tremare al vento come se stessero per cadere.
Rimase lì, immobile, come se la terra sotto i suoi piedi avesse chiuso improvvisamente tutte le vie del ritorno.
Il cielo si fece cupo, denso come una nuvola di aprile in collera.
La vide allontanarsi verso la sua stanza, senza voltarsi.
La porta si chiuse con un respiro soffocato, e lui restò lì, rigido, come una statua di smarrimento.
Non capiva più nulla —
né cosa avesse detto,
né come una parola nata dalla sua dolcezza fosse potuta diventare una lama che l’aveva ferita.
In silenzio, si domandò:
“Cosa ho fatto? Era forse offensiva la mia domanda? O solo maldestra?”
Alzò lo sguardo al soffitto, poi al corridoio, poi dietro di sé, come chi cerca una mappa per un cammino perduto.
“Devo bussare alla sua porta? Dirle che non volevo ferirla? O devo andarmene, come fanno i codardi? Forse tornare dai miei, come avevo promesso per la fine della settimana?”
Le ore passarono lente, e il tempo sembrò pietrificarsi nei suoi occhi.
Da quando lei era uscita, qualcosa dentro di lui si era spezzato — come una corda invisibile.
Non sentiva più nulla, se non il rumore del proprio silenzio.
Ovunque guardasse, vedeva solo la sua ombra che si allontanava, con quegli occhi accesi da un fuoco che non sapeva decifrare.
Si sedette sui gradini, poi si alzò, poi fece qualche passo avanti e indietro, come chi tenta di perdersi da se stesso.
E a ogni passo, le sue parole gli tornavano addosso come un’eco che non smetteva di pulsare:
— “L’ho indossato per te… poi è diventato un’abitudine.”
Quella frase gli bruciava dentro come una confessione che nascondeva una storia più grande.
Era lui la luce che aveva illuminato il suo cammino?
O l’ombra che aveva spento i suoi colori?
Era uno specchio limpido… o solo un frammento spezzato che le aveva restituito un’immagine distorta?
Per la prima volta da quando la conosceva, prese carta e penna.
Non scrisse su di lei, ma a lei.
Ogni parola gli usciva come un punto di luce nella notte:
Non ti ho capita, ma non volevo farti male.
Se ti ho ferita, sappi che anch’io soffro come te.
Il silenzio che ora mi abita è più rumoroso di qualsiasi voce…
Poi smise di scrivere.
Come se il cuore, più della mano, gli avesse sussurrato:
“È questa la fine del sogno? O forse un nuovo inizio, dove la luce troverà ancora la sua strada?”
Scrivo in prosa, per la prima volta — pensò —
come se tradissi la poesia che ti ho sempre dedicato.
Ma oggi le parole non vogliono obbedire alla rima,
non vogliono danzare sui versi,
cadono pesanti… come me: confuse, silenziose, smarrite.
Non ho capito cosa sia accaduto,
e non pretendo di avere ragione.
Ma nella tua voce c’era qualcosa che ha spezzato una parte di me,
e nel tuo volto, al momento dell’addio,
c’era un silenzio così profondo da togliermi il respiro.
Non volevo sbagliare,
non volevo ferirti.
E se l’ho fatto, è solo perché nei momenti di vicinanza
sbagliamo di più —
quando il cuore è troppo vicino al confine tra la tenerezza e la paura.
Cercavo una frase che ti facesse sorridere,
e invece m’è sfuggita una parola sciocca,
una freccia che ti ha colpita senza che me ne accorgessi.
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Numan non voleva che fosse solo un foglio pieno di scuse,
né un esercizio di scrittura nel vuoto della sua assenza.
Voleva che fosse una vera lettera —
un atto d’amore, un modo per chiedere perdono con la voce che non aveva più.
Rilesse le sue parole una a una,
come un contadino che sistema con cura i rami di una pianta giovane.
Poi aspettò che il padre di Muna tornasse dal lavoro,
che si sedesse, che si distendesse un poco.
Quando l’uomo si accomodò, Numan gli raccontò tutto:
ciò che era successo e ciò che non era riuscito a dire a sua figlia.
Il padre rise, una risata piena e calda che riempì la stanza di luce,
poi posò una mano sulla spalla del ragazzo, con affetto,
e gli tolse il foglio di mano.
Si alzò con una leggerezza che non sembrava appartenere alla sua età,
e andò verso la stanza della figlia.
Bussò tre volte, piano, come faceva quando lei era bambina.
Il suo tono dolce riaprì in lei una porta di ricordi.
Quando sentì la sua voce, Muna si alzò di scatto,
gli corse incontro e gli si gettò tra le braccia, piangendo.
Non sapeva bene perché —
forse per la nostalgia, forse per la tenerezza improvvisa
di sentirsi ancora piccola, protetta, amata.
Il padre la tenne stretta a lungo,
ascoltandola in silenzio,
lasciando che la storia raccontata da Numan rimanesse sullo sfondo.
Poi rise di nuovo — la stessa risata che lei ricordava da bambina,
quella che le scaldava il cuore.
Quando le lacrime si calmarono, si alzò piano,
posò la lettera accanto al suo cuscino,
e uscì dalla stanza chiudendo la porta con dolcezza.
Fuori, mantenne la promessa fatta al giovane:
lo rimproverò con voce severa,
ma il sorriso che si nascondeva dietro le parole
tradiva la complicità silenziosa di chi sa già
che la storia non è ancora finita.

Dentro la stanza, il cuore di Muna finalmente si calmò.
Si sedette piano, cercando di ritrovare il respiro che la fuga delle lacrime le aveva rubato.
Quando allungò la mano per sistemare il cuscino, notò una piega di carta che non ricordava d’aver visto prima.
La prese con esitazione.
Non era una delle sue solite note: il foglio era ripiegato con cura, ordinato, quasi rispettoso.
Lo aprì piano, come si apre una finestra dopo una lunga pioggia.
In cima, una sola parola:
“Muna.”
Si fermò un istante.
Quel nome, così semplice, sembrò pronunciarlo lui — non la sua penna.
Le dita sfiorarono le lettere come a cercare un battito, poi iniziò a leggere.
Scrivo in prosa, per la prima volta… come se tradissi la poesia che tu mi conoscevi.
Oggi le parole non vogliono rime, né vogliono danzare sui versi: cadono, come me… pesanti, confuse, silenziose.
Muna trattenne un respiro, come se avesse sentito la propria malinconia restituirsi in eco.
Non ho capito cosa sia successo,
e non pretendo di avere ragione.
Ma nel tuo silenzio c’era qualcosa che ha spezzato qualcosa dentro di me.
E nel tuo viso, quando te ne sei andata, ho visto la calma del mondo svanire.
Sollevò lo sguardo, tremante.
Poi continuò a leggere, più lentamente:
Non volevo ferirti.
Non volevo sbagliare.
Ma forse l’amore inciampa proprio quando si avvicina troppo.
Cercavo una frase che ti piacesse,
e mi è uscita una parola stupida… come una freccia lanciata alla cieca.
Le labbra di Muna si piegarono in un sorriso incredulo, poi si chiusero di nuovo.
Sembrava che il foglio stesse confessando ciò che lei non aveva mai osato dire.
Mi dispiace di non aver capito.
Mi dispiace di non averti chiesto, prima che te ne andassi:
“Stai bene?”
Mi dispiace d’essere rimasto lì, sul marciapiede freddo,
a guardarti andare via senza muovermi.
Mi dispiace non solo per l’errore,
ma per non essere stato l’uomo che meritavi.
Le mani di Muna tremarono.
Gli occhi si fecero lucidi.
Continuò, quasi sussurrando:
Se ciò che c’era tra noi ha chiuso la sua porta,
io resterò sulla soglia.
Ad ascoltare il vento,
a fare amicizia col silenzio,
a sistemare le parole del mio perdono
finché non assomiglino a te:
delicate, sincere, e lontane… proprio come te.
Le righe finirono, ma dentro di lei qualcosa restò sospeso.
Stringendo il foglio al petto, Muna sentì un calore che non proveniva dalla carta, ma da un tempo in cui l’amore era ancora possibile.
E, in un soffio, mormorò:
«Finalmente… ha scritto per me. Non su di me.»
Corse leggera, come un passero spaventato, verso la porta.
La aprì piano, gettando uno sguardo rapido nel corridoio.
Non c’era nessuno.
Allora richiuse, lentamente, con la calma fredda di chi chiude non una porta, ma un capitolo intero della propria vita — uno che non vuole più riaprire.
La sua ombra esitante scivolò nella stanza come un fantasma ferito.
Con un gesto distratto lasciò cadere la prima lettera sulla sedia, come a liberarsi del peso che portava sulle spalle: quello di parole impotenti e di sguardi rimasti sospesi nell’aria.
Si voltò verso la finestra, e fu allora che la vide.
Qualcosa brillava sul davanzale: una busta colorata, come un segno, come un nuovo inizio che la stava aspettando.
Muna fece un passo, esitante.
Si affacciò dietro il vetro, cercando con gli occhi un’ombra, un volto, un segno di Numan.
Ma vide solo se stessa riflessa nel vetro, un’immagine fragile, una domanda senza risposta.
Allungò la mano e prese la busta.
La aprì in fretta, con la stessa impazienza con cui si apre una ferita per guardare cosa c’è dentro.
Poi, con una dolcezza improvvisa, cominciò a leggere.
Cammini lenta, e il mio cuore ti segue smarrito,
come se tu fossi il sole e la mia casa la tua luce.
Muna, anima di sogno, hai lasciato il mio sangue inquieto:
a volte la tua domanda mi accarezza, a volte mi tormenta.
Hai preso il mare, e la tristezza mi chiede:
“Sai se la distanza ti ha già perduto?”
Ti ho vista andar via, e il silenzio delle cose
mi ha risposto con gli occhi stanchi.
Mi hai lasciato un sussurro, ma la fretta dell’addio
ha spezzato la parola tra le mie mani.
I tuoi abiti non sono più quelli che ricordo,
sei guarita, o il tempo ti ha solo mascherata?
Se tornerai, e il mio cuore sarà ancora in fiamme,
chiederò all’anima cosa ha nascosto dei miei giorni.
Da me la pace, anche se i tuoi passi domani svaniranno:
l’affetto, tra le costole, non è mai svanito.
Non ho mai chiesto al mondo altro che la rugiada
capace di cancellare le notti dure.
Ma tu sei il vento, e il vento non sa restare.
Quando parte, non torna più alle mie rive.
Per un attimo, Muna restò immobile.
Poi, in un gesto che non le apparteneva, posò il foglio sul cuscino.
Lo strinse al petto, chiuse gli occhi,
e si lasciò portare via —
in un mare profondo di sogni,
dove le parole di Numan galleggiavano come stelle senza cielo.

Si svegliò di buon mattino il signor Ahmad.
Bussò piano alla porta della stanza di Numan e lo chiamò perché lo aiutasse a preparare la colazione.
Numan stava leggendo un versetto del Corano. Finì la recitazione con calma, richiuse il libro e lo ripose con rispetto nella libreria. Poi raggiunse il signor Ahmad in cucina per dargli una mano.
Passando accanto alla porta di Muna, si fermò un istante e la chiamò con voce pacata, senza bussare.
Lei arrivò poco dopo, silenziosa, e si mise ad aiutarli a portare i piatti e il pane caldo sul tavolo. Non disse una parola.
— «Come preferisci le uova oggi?» chiese il padre, cercando il suo sguardo. «Sode o fritte?»
Muna restò zitta per qualche secondo, come se stesse raccogliendo una forza invisibile.
Poi alzò la testa e parlò con voce limpida, ferma, che veniva da un luogo profondo e trattenuto troppo a lungo:
— «Non porterò più il velo, papà.
E vestirò come voglio io,
per me, non per nessun altro.»
Gli occhi del signor Ahmad non si fermarono sul volto della figlia ribelle; non c’era in lui né stupore né irritazione.
Disse soltanto, con quella calma che sapeva essere insieme paterna e amica:
— «Va bene… non c’è problema. Sai già cosa penso di tutto questo.»
Poi si sedettero a tavola.
Un silenzio denso scese su di loro, come se ogni parola detta avesse aperto una finestra al vento.
Il tè fumava ancora, il pane era caldo, e la luce del mattino entrava chiara dalla finestra.
Ma Muna, per la prima volta, sentì di sedersi con la schiena dritta, come se avesse appena imparato a respirare davvero.
Capitolo Diciassette 17:
A casa del signor Ahmad – due mesi dopo l’inizio dell’università
La sera era scesa tranquilla, con quella calma domestica che si posa sulle cose come una carezza.
Sul balcone, dopo cena, regnava un’atmosfera raccolta e familiare: il signor Ahmad stava preparando il tè, Muna riordinava gli ultimi piatti nella cucina aperta sul soggiorno, mentre Numan, in silenzio, portava dentro ciò che restava sulla tavola.
Il suo sguardo pareva lontano, come se aspettasse che qualcuno parlasse per primo. Forse voleva confidare qualcosa, o forse solo sentire che non era solo nei pensieri che lo tormentavano.
Muna lo osservò per un attimo, poi gli rivolse la parola con un tono leggermente ironico, dove la curiosità si mescolava a un rimprovero gentile:
— «Perché non mi hai mai raccontato della festa che hai fatto a Duma, dopo la maturità?»
— «Chi te l’ha detto?» chiese lui, sorpreso.
— «Ne ho sentito parlare… quando parlavi tempo fa con il signor Abu Mahmoud. Ma da te, niente.»
Numan esitò un istante, passandosi la mano tra i capelli. Poi, guardando prima lei e poi suo padre, rispose piano:
— «Pensavo che non ti interessasse molto… o che non l’avresti vista come la vedo io.»
— «E perché mai non dovrebbe interessarmi?» replicò lei, piegando la testa con un sorriso appena accennato.
Numan si sedette, come per ordinare i ricordi prima di lasciarli uscire.
— «Verso la fine dell’estate scorsa,» cominciò, «avevo appena finito un lavoro pesante in un’officina di ferro. Non restava abbastanza tempo per iniziarne un altro prima dell’apertura delle scuole, così un cugino di mio padre, che lavorava alla SADCOP – la compagnia petrolifera siriana – mi propose un contratto temporaneo.
Accettai subito. Non volevo passare i giorni che restavano a casa senza far nulla.
Lì conobbi cinque impiegati con cui dividevo la stessa stanza e lo stesso ritmo quotidiano. Erano di età diversa, ma qualcosa tra noi cancellava le distanze. Prima colleghi, poi amici, infine quasi fratelli.
La sera ci facevamo visita a turno; nei giorni liberi andavamo in gita lungo il Barada o tra i frutteti di Ghouta. C’era un ragazzo della mia età, Hassan Shtiwi — aveva una voce meravigliosa, simile a quella di Abdel Halim Hafez; quando cantava, intorno a lui cadeva un silenzio pieno di stupore.
Con noi c’era anche Adnan al-Mughayir, un uomo sulla quarantina, elegante e serio, che suonava l’oud con un calore che ti restava dentro. Era stato uno dei membri del celebre coro di Hamza Shakour.
Ogni volta che ci incontravamo, cucinavamo insieme, poi ascoltavamo Adnan suonare e Hassan cantare. A volte ci univamo anche noi, con le nostre voci imperfette ma felici. Era come se, per qualche ora, vivessimo un piccolo sogno in mezzo alla realtà.
La nostra amicizia non finì con la fine del mio lavoro alla compagnia. Continuammo a vederci, a volerci bene.
E poi, una sera, dopo l’uscita dei risultati dell’esame di maturità, vennero tutti da me — Hassan, Adnan e gli altri — per festeggiare.
Ricordo ancora la voce entusiasta di Hassan: “Numan, dobbiamo organizzare una festa come si deve! Io canterò, Adnan suonerà, e il resto lo sistemiamo insieme!”
Accettai subito e proposi di farla nel giardino di mio nonno. Andai da lui, timidamente, a chiedere il permesso… e, sorprendentemente, disse di sì!
Mio nonno, che aveva sempre considerato la musica un peccato, mi diede il suo consenso.
Ero così felice che non riuscivo a crederci.
Cominciai i preparativi: luci colorate, fili di lampadine, tavoli e sedie presi a noleggio, una piccola pedana di legno davanti agli alberi, che sarebbe diventata il nostro palco.
Invitai tutti — zii, cugini, vicini, amici — e mia madre, raggiante, passò ore in cucina a preparare dolci, come se impastasse la gioia stessa con le sue mani.»
Tre ore prima dell’inizio della festa, arrivò Hassan.
Non era solo: due macchine piene di uomini e strumenti musicali, più di quindici persone in tutto!
Si avvicinò con quel suo sorriso svelto e mi sussurrò all’orecchio:
— «Sono miei amici, una volta suonavo anch’io con loro. Ma prima di tutto… devi offrirgli da mangiare!»
Rimasi per un attimo senza parole, poi lo invitai dentro e corsi da mia madre, da mia nonna e dalle donne di casa, chiedendo il loro aiuto per preparare un pranzo degno di quell’improvvisa invasione.
Incredibilmente, in meno di un’ora tutto era pronto: tavoli uniti nel giardino, grandi vassoi di riso e carne, dolci, frutta, e infine il tè. Dopo aver sparecchiato, rimettemmo tutto a posto e, al tramonto, ci alzammo per la preghiera del maghrib.
Quando finimmo… la festa cominciò davvero.
Gli strumenti uscirono una dopo l’altro dalle automobili: oud, nay, violino, tamburo, tamburelli, piccoli amplificatori… e in pochi minuti il giardino si riempì di musica.
Le voci si intrecciavano come fili di luce, le risate brillavano tra gli alberi, e ogni volto sembrava una stella accesa nel buio della notte estiva.
Verso mezzanotte e mezza, mio nonno mi chiamò con voce calma:
— «Basta così, figlio mio. I vicini hanno diritto al silenzio, e la notte è ormai avanzata.»
Ringraziai Hassan, salutai i musicisti uno ad uno e, prima di andare a dormire, baciai le mani di mio nonno e di mia nonna in segno di gratitudine.
Il giorno dopo, Hassan tornò a trovarmi.
Il suo sorriso era diverso, leggermente esitante.
— «La festa è stata meravigliosa,» mi disse, «ma… ho dovuto pagare alcune spese. Ho già messo io trecento lire, e me ne servono altre trecento.»
Lo guardai in silenzio per qualche secondo, poi risposi con calma:
— «Non ne avevamo parlato, Hassan… ma va bene. Ecco seicento lire, sono tutte per te.»
Le prese, mi abbracciò e se ne andò soddisfatto.
Due settimane dopo, venne a trovarmi Adnan.
Era taciturno. Si sedette, mi guardò a lungo, poi disse con voce bassa:
— «Hassan ti ha imbrogliato, Numan. Ha preso accordi con il gruppo alle tue spalle.
Ha detto loro che tu avresti offerto un banchetto di lusso, e li ha convinti a venire per divertirsi un po’. Tu… hai pagato per tutti.»
Non risposi subito. Sentii il cuore stringersi, poi aprirsi in un misto di dolore e tenerezza.
Andai a cercarlo, più volte, ma Hassan non si fece mai trovare.
Svanì, come spariscono certe amicizie quando arriva la loro ombra.
Eppure, non riuscivo ad arrabbiarmi.
Aveva portato gioia, anche senza volerlo.
E io… io preferisco essere ingannato mille volte, piuttosto che ferire qualcuno una sola volta.
Muna lo ascoltava senza distogliere lo sguardo, come se nelle sue parole ci fosse una lezione antica. Poi chiese piano:
— «E perché non ci hai invitati a quella festa? O almeno mio padre?»
Numan sorrise con un’ombra di esitazione.
— «All’epoca il nostro rapporto era ancora all’inizio… forse anche un po’ teso. E poi la festa era molto semplice, popolare.
Mi sarebbe sembrato strano invitare tuo padre da solo, o chiederti di venire.
E comunque, quella sera, tutti gli uomini che conoscevano la nostra storia mi chiesero di quel “nuovo signore”, volevano conoscerlo.
Mia madre, invece, mi raccontò delle donne del vicinato: si erano radunate dietro le finestre ad ascoltare le canzoni.
Alcune spiavano tra le tende per vedere com’era la festa… e poi le sentivo chiedere a mia madre: “È vero che Muna verrà? Vogliamo vederla da vicino.”»
Il signor Ahmad, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, sollevò lo sguardo e disse con un sorriso:
— «Un tè, Muna… direi che è proprio il momento giusto per uno.»
Capitolo Diciotto 18:
— «Non hai detto una parola per tutta la cena. Se non fosse stato per la domanda di Muna sulla festa, oggi non avremmo sentito neanche un tuo suono.»
Numan alzò lentamente lo sguardo, come sollevando un pesante velo dal cuore, e sussurrò con voce tremante, quasi pronunciando una condanna su se stesso:
— «Sì… forse… eppure… hai ragione, zio. È perché… mi sento come qualcuno che sta sul bordo della sconfitta, e non riesce ad ammetterlo.»
Le mani erano intrecciate, come legate contro la sua volontà, e Muna lo guardava con occhi pieni di stupore, interrogativi, mentre le sue espressioni cambiavano.
— «Da dove ti viene questa sensazione?» chiese, con voce che cercava di capire.
Numan sospirò, scavando in una memoria pesante, e disse:
— «Pensavo di essere bravo in arabo. Soprattutto dopo che mi hai fatto notare quel voto che ho preso alla maturità… quel voto che mi ha permesso, anzi, mi ha dato l’opportunità di iscrivermi direttamente al corso di lingua araba.»
Muna inclinò dolcemente la testa, come per cogliere un filo di verità nascosta:
— «E sei davvero bravo, ma… da dove viene questa sensazione?»
Numan restò in silenzio un attimo, poi parlò come accettando la propria delusione:
— «Non voglio farti complimenti falsi… e neanche mentire a me stesso. Sono passati due mesi dall’inizio dell’università, eppure… ancora adesso vengo con te al mattino, e la sera… mi intrufolo alle lezioni del professor Asim Baytar.»
Muna sollevò le sopracciglia, sorpresa, e chiese con acume:
— «E perché segui le lezioni serali di grammatica?»
Si fermò un attimo, aggiungendo con un nodo in gola che non riusciva a nascondere:
— «O mi credi assente, e c’è qualcun altro che ti attira?»
Numan si agitò, alzò le mani come a giurare:
— «Dio me ne scampi! Non pensare a nulla del genere, Muna! È solo grammatica… la grammatica che insegna il professor Asim.»
Muna, con voce più morbida ma piena di ansia, chiese:
— «E perché grammatica?»
In quel momento, Numan sembrava essersi liberato di un peso invisibile che gli gravava sulle spalle, e disse senza indugi:
— «Non la capisco affatto. Anche ascoltando il professor Asim, mi sembra di sentire formule incomprensibili, senza alcun senso per me, e non riesco a credere che appartengano alla lingua che un giorno pensavo di dominare.»
Muna non poté fare a meno di ridere, a lungo, con negli occhi un luccichio di ironia piena d’affetto, e disse:
— «E allora perché ci siamo iscritti, io e te, al corso di lingua araba, se non per impararla? Per capirla? Per padroneggiarla?»
Numan rispose con voce sommessa, intrisa di timidezza:
— «Sì… ma tu capisci, dialoghi, fai domande, partecipi… io invece… ho paura che il professor Asim mi guardi quando pone una domanda in aula!»
Lei, con tono pacato e interrogativo, insistette:
— «E vieni la sera per capire ciò che non riesci a capire al mattino?»
Scosse leggermente il capo e mormorò con voce sincera:
— «Sì.»
Muna rimase in silenzio per un attimo, come se stesse soppesando le sue parole nel cuore prima di rispondere. Poi parlò, con voce che mescolava dolcezza e fermezza:
— «Numan, non ti manca la conoscenza, ma la fiducia. Hai paura di sbagliare davanti agli altri, così resti in silenzio e ti ritiri negli angoli. La grammatica non è un oracolo da decifrare, né un enigma da risolvere: è come la lingua stessa… ama chi la affronta con cuore innocente, non con il timore di peccare.»
Numan gesticolò nello spazio della stanza, quasi a rappresentare quella paura che gli insegnanti stessi instillavano nei cuori degli studenti, e disse con tono che mescolava stupore e disapprovazione:
— «Non vedi, Muna, che per alcuni professori universitari il gesto più semplice è dire, con tono secco e autoritario: ‘Fuori!’… solo perché uno studente ha sbagliato una pronuncia o una coniugazione grammaticale mentre cercava di rispondere?»
Poi tacque, e i suoi occhi tradivano ciò che le parole non potevano esprimere: una paura antica fatta di silenzi, attese e porte chiuse senza possibilità.
Muna lo guardò a lungo, poi rispose con calma, celando un calore quasi arrabbiato:
— «Stiamo imparando l’arabo, vero?»
— «Sì!» rispose lui rapidamente, come chi afferra una corda di salvezza.
Lei continuò, e la sua voce era limpida come uno specchio:
— «E allora a cosa serve impararla, se il professore non ci ascolta mentre proviamo, sbagliamo e ci correggiamo? Non dovrebbe il dialogo e la risposta essere un’applicazione pratica di ciò che impariamo? Oppure è solo una conoscenza da esibire durante gli esami e poi ripiegare le pagine?»
Numan rimase sorpreso dalle sue parole; seguì un breve silenzio, ma tutt’altro che normale… un silenzio che riecheggiava nei cuori di molti, non solo nella stanza.
Scosse il capo, come ricevessero uno schiaffo improvviso, e disse, con tono che tradiva ciò che aveva appena udito:
— «Forse… in ogni lezione cerco me stesso e non mi trovo, e torno con una nuova delusione. E ogni volta che ti vedo alzare la mano per una domanda o correggere un significato, sento dentro di me una voce che sussurra: guarda… c’è chi merita di stare qui… e tu no.»
Muna si avvicinò leggermente, posò delicatamente la mano sul dorso della sua, e lui tremò, come se toccasse una vecchia ferita. Lei disse con voce calda:
— «Quella voce… è falsa, ha paura, proprio come te. E se le darai ascolto troppo a lungo, diventerà la tua voce, e dimenticherai come essere davvero te stesso.»
Numan la guardò a lungo negli occhi, qualcosa nel cuore si sciolse, e sussurrò:
— «Sai? Se ogni dubbio avesse un consigliere come te, molte anime non si smarrirebbero.»
Poi rise piano, una risata che tremolava tra timore e desiderio, sfiorando il margine di un sogno. Non era una risata di gioia, ma di chi cerca di convincersi a fare il passo pur tremando.
Disse, rivolgendosi più a se stesso che a lei:
— «Domani… andrò dal professore dopo la lezione e gli farò una domanda… per trovare un piano da seguire. Sicuramente ha incontrato molti come me… studenti con voti alti in arabo, nel ramo scientifico, ma che, all’inizio, si sono trovati smarriti.»
Sul volto di Muna si disegnò un sorriso pieno di serenità, e rise con dolcezza, come se richiamasse la luce in un luogo che voleva rimanere oscuro.
Indicò il suo petto, che cominciava a salire e scendere come un’onda nascosta sotto un vento timido, e disse con voce dolce ma ferma insieme:
— «Non avere timore della conoscenza, sii solo sincero.»
Il tempo si fermò per un istante… le sue parole non erano un consiglio, ma uno specchio in cui Numan si vide com’era giusto essere, non come aveva paura di essere.
La mattina seguente, tra passi che mescolavano determinazione e esitazione, Muna accompagnò Numan nello studio del professor Asim Beitar.
Una sedia di pelle silenziosa, libri sparsi sugli scaffali come se sussurrassero antica sapienza, e l’orologio sulla parete scandiva il tempo con precisione… tutto conferiva alla stanza un’aura solenne che intimoriva chiunque vi entrasse per la prima volta.
Numan bussò leggermente; il professore li invitò a entrare. Dopo i convenevoli, si sedettero davanti a lui, e Numan, con voce sommessa, chiese permesso:
— «Mi scusi, professore, posso parlarti in dialetto? La grammatica, e in particolare la sintassi, mi pesa più di quanto tu possa immaginare.»
Il volto del professor Asim si aprì in un sorriso leggero; non c’era stupore nei suoi occhi, sollevò appena gli occhiali e disse con tono calmo:
— «Tutti siamo passati di qui, Numan. La grammatica è testarda all’inizio, ma diventa amica di chi sa pazientare.»
Numan inspirò profondamente e spiegò con sincerità come si sentisse smarrito nelle aule, e come ascoltasse le regole grammaticali come se fossero incantesimi in una lingua straniera.
Il professore tacque per un momento, come se sfogliasse nella memoria racconti simili, e poi disse:
— «Se vuoi davvero imparare e eccellere, ti propongo un piano strutturato… lo seguiremo insieme, passo dopo passo. Non conta ciò che hai ottenuto alle superiori, ma ciò che vuoi raggiungere adesso.»
Numan guardò Muna e trovò nei suoi occhi una luce simile a quella di un mattino dopo una lunga notte. Lui non sentiva più il timore di prima… sentiva un sincero desiderio di cominciare.
Nei giorni successivi, Numan non era più lo studente che si nascondeva negli angoli dell’aula, evitando lo sguardo del professore. Sedette in prima fila, con il cuore che batteva, ma questa volta per speranza, non per paura.
Un giorno, durante una lezione, il professor Asim commentò un audace esercizio grammaticale presentato da Numan:
— «Scrivi come chi temeva la penna, e ora la corteggia!»
Gli studenti risero, e Numan arrossì, ma non nascose la gioia… era la prima volta che veniva riconosciuto in aula come qualcuno che meritava di essere menzionato.
Dopo la lezione, Muna, con evidente gioia negli occhi, si avvicinò a lui:
— «Hai visto? Tutto questo era dentro di te, e tu non lo vedevi.»
Numan, respirando a pieni polmoni dopo lo sforzo, rispose:
— «È come se riscoprissi la mia lingua… come se imparassi a capire me stesso.»
Capitolo Diciannove 19:
Il padre di Muna si svegliò presto, come ogni mattina. La chiamò con voce pacata per fare colazione insieme, prima che uscisse per l’università.
L’alba era fresca e piena di vita. Nell’aria si mescolavano il profumo del pane caldo e il cinguettio degli uccellini che si rincorrevano nel piccolo giardino dietro casa.
Seduto con calma al tavolo, aspettò che lei prendesse posto; poi, con un accenno di sorriso e un tono in cui aleggiava un’eco di ricordi lontani, disse:
— Ho trovato un istituto a Damasco, si chiama Istituto della Repubblica.
Vi insegna un professore, un dottore che fu mio collega quando studiavo in Francia.
Gli ho parlato: domani inizierà un corso intensivo…
Le lezioni durano circa tre ore al giorno, solo la sera.
Non ci sono pause né per mangiare né per riposare.
Il corso dura sei mesi soltanto, ma chi vorrà potrà iscriversi a un secondo ciclo di formazione identico.
Poi inclinò leggermente il capo verso Muna, e nei suoi occhi brillò una luce incoraggiante.
Con un sorriso familiare le chiese:
— Che ne pensi?
Numan entrò nella stanza proprio allora, richiamato dal tono vivace della voce di lei — come se fosse stato evocato dai suoi pensieri stessi.
Guardò il signor Ahmed con un’espressione composta, le sopracciglia appena sollevate, come chi nasconde un piacevole stupore.
Poi, con una voce calda, che sembrava aprirsi come un sorriso dal profondo, disse:
— Nessun problema… Anzi, a dire il vero, ho sempre sognato un tipo di studio e di lavoro come questo.
Ne avevo già parlato con Muna, tempo fa.
Si voltò verso di lei, lasciando che fossero prima i suoi occhi a domandare,
come se offrisse al cuore dell’altra il diritto di scegliere prima ancora che la parola prendesse forma:
— E tu, Muna, che ne pensi?
Lei rimase in silenzio per un istante, come sorpresa dal peso dolce di quella domanda, che la costringeva a guardare in profondità verso ciò che stava per intraprendere.
Poi sollevò lo sguardo su Numan; nei suoi occhi c’era un misto di gratitudine e inquietudine, come se volesse dirgli: Mi capisci davvero fino a questo punto?
Con voce lieve ma ferma, rispose:
— Voglio questa opportunità, e la farò mia.
Non voglio somigliare a nessuno, né vivere per compiacere qualcuno… se non me stessa.
Si voltò infine verso suo padre. Sul volto le brillava quella luce che illumina gli occhi di una ragazza al primo passo verso un sogno coraggioso:
— Parteciperò al corso, e sceglierò io ciò che voglio imparare.
E se per farlo dovrò cambiare strada… che sia.
Numan e il signor Ahmed si scambiarono uno sguardo breve, quasi impercettibile, ma carico di un’intesa tranquilla.
C’era, in quell’attimo sospeso, qualcosa che somigliava alla quiete… e insieme, all’orizzonte, il presagio di un inizio.
— Sono d’accordo anch’io… ma a una condizione, disse Muna.
Il padre la guardò incuriosito, con un sorriso appena accennato sulle labbra.
— E quale sarebbe?
Lei rispose con un tono scherzoso:
— Che tu non controlli i nostri disegni come facevi con i miei quadri quando ero a scuola!
Risero tutti. L’atmosfera si sciolse in una leggerezza inattesa, come se una brezza avesse spazzato via la serietà della conversazione.
Il signor Ahmed tirò fuori un foglio di carta dalla tasca e lo porse a Numan.
— Dunque, domani dovrete essere all’istituto alle cinque del pomeriggio. Qui c’è l’indirizzo scritto, e io avviserò il professore del vostro arrivo.
Il ragazzo prese il foglio con entrambe le mani, come chi riceve un biglietto per un viaggio di cui non conosce la destinazione.
Mormorò un ringraziamento quasi impercettibile; nei suoi occhi brillava un punto di luce, una scintilla che sembrava venire dal profondo del cuore:
— Vi ringrazio… Sento che sto per iniziare qualcosa di nuovo, dove l’arte e la vita si confondono.

La sera seguente, dopo le lezioni del mattino e un breve riposo dopo pranzo, un taxi si faceva strada verso il quartiere di al-Mazra‘a, trasportando due sogni che viaggiavano fianco a fianco, come germogli nati dalla stessa terra.
Il sole di gennaio, velato da nuvole pesanti, si posava sui marciapiedi della vecchia Damasco con la dolcezza di un addio.
Numan fissava il paesaggio dal finestrino in silenzio, con un’espressione che mescolava timidezza e attesa.
Sembrava voler imprimere nella memoria ogni dettaglio della strada, come chi sente che, dopo, nulla sarà più lo stesso.
Accanto a lui, Muna sfogliava un piccolo taccuino.
La notte precedente vi aveva disegnato lo schizzo di una casa a due piani — più simile a un sogno che a una costruzione vera.
Indicò il disegno con il dito, e con una voce in cui si mescolavano pudore e malizia, disse:
— Sai, Numan? Da bambina, mi divertivo a ridisegnare nella mia testa la stanza dieci volte, prima di chiedere a mio padre di spostare il letto.
Numan sorrise, e con un tono pieno di tenerezza mormorò:
— Allora la piccola architetta che era in te resisteva, in silenzio, già da tempo.
Muna rise piano, e replicò con una scintilla ironica negli occhi:
— E tu? Chi abitava dentro di te?
Numan restò in silenzio un momento, guardando lontano verso la fine della via. Poi sospirò, come chi tocca una memoria che non ha mai davvero conosciuto:
— Forse… un bambino che sognava una casa con un balcone sul fiume… senza essere cacciato via.
Muna tacque. Il suo sguardo si addolcì, e, come se avesse letto ciò che lui non aveva detto, gli sfiorò la mano con delicatezza.
Nella sua voce si udì un battito di promessa:
— Un giorno la troveremo, quella casa.
— Ti disegneremo un balcone… degno del tuo sogno, sussurrò Muna, con un sorriso che pareva sciogliere la distanza fra realtà e promessa.
L’auto si fermò davanti all’edificio dell’Istituto della Repubblica: un palazzo bianco, antico, circondato da cipressi che ne custodivano il silenzio con austera eleganza.
All’ingresso, una targa di legno recava, in una calligrafia curata:
“Istituto della Repubblica.”
Entrarono insieme, con passi che mescolavano prudenza e speranza.
Alla reception li accolse un uomo sorridente, intento a sfogliare alcuni fascicoli.
— Siete i nuovi studenti mandati dal professor Ahmed, vero?
Numan annuì con prontezza, presentandoli entrambi:
— Sì, lei è Muna… e io sono Numan.
Dopo aver annotato i loro dati, l’uomo premette un piccolo campanello sulla scrivania.
Muna si chinò verso Numan, e con un lampo ironico negli occhi mormorò:
— Quindi niente cuoricini ai margini dei fogli!
Numan rise piano, e replicò con tono complice:
— Neanche balconi a forma d’ali di uccello.
Un giovane in divisa dell’istituto apparve sulla soglia e li invitò a seguirlo verso l’aula assegnata.
Salirono le scale fianco a fianco.
Nel corridoio aleggiava un profumo lieve di gesso antico, mescolato all’odore caldo del legno dei banchi da disegno. Studenti e impiegati si muovevano in silenzio, con una calma quasi da biblioteca.
Nella sala delle lezioni si sedettero accanto, Muna appoggiò il suo taccuino sul banco, mentre Numan tirò fuori una matita scura, come se quel gesto segnasse l’inizio di una nuova stagione della sua vita.
Entrò il dottor Riyad, con l’abito grigio e gli occhiali dal sottile bordo metallico.
Si fermò davanti alla lavagna, osservò i volti attenti, poi disse con voce ferma e profonda:
— Benvenuti al vostro corso intensivo di progettazione architettonica. Qui non disegneremo soltanto muri: cercheremo il significato che esiste tra la luce e l’ombra, tra l’idea e la deviazione voluta.
Muna e Numan si scambiarono uno sguardo rapido, come se quelle parole avessero toccato una corda nascosta dentro di loro.
Numan sussurrò, con un’emozione calma:
— Sento che, finalmente, ho trovato il laboratorio dove imparerò a costruire i miei sogni.
Muna rispose sottovoce, e nei suoi occhi brillava una luce complice:
— E noi saremo una squadra… vero?
«— Sì, una squadra… che disegna e vive.»
Era passato un mese da quando Numan e Muna avevano iniziato il corso intensivo di disegno architettonico.
Il signor Ahmad aveva messo a disposizione di Numan una piccola ala separata della casa: una stanza con un letto semplice, una libreria, una scrivania per lo studio e un tavolo dedicato ai progetti che gli affidava lo stesso Ahmad. C’era anche un armadio di legno, un bagno e una minuscola cucina. Tutto il necessario per lavorare, studiare, leggere e restare, di tanto in tanto, solo con i propri pensieri.
Giorno dopo giorno, continuavano ad apprendere con entusiasmo sotto il tetto dell’Istituto della Repubblica, in un’aula colma di righelli, modelli di edifici e fogli bianchi che, poco a poco, si trasformavano in idee concrete.
Il tempo scorreva veloce, e con le prime dita della primavera il calendario tornava a voltare le sue pagine. L’università riapriva le porte: i banchi, i quaderni e i corridoi riprendevano a vibrare di voci e passi.
Una sera, seduti come sempre nell’angolo più tranquillo della biblioteca di casa, Muna alzò lo sguardo dal quaderno e parlò con un tono quieto, quasi pensasse a voce alta:
— Numan… e se continuassi tu da solo il corso? Io potrei tornare alle lezioni all’università.
Lui sbatté le ciglia, sorpreso. La fissò per un istante, poi posò lentamente la matita e chiese a bassa voce:
— Vuoi smettere il corso? Perché? Non dicevi che ti faceva scoprire una parte di te che non conoscevi?
Lei fece scorrere le dita sul margine della pagina, dove aveva disegnato la spirale di una scala:
— È vero. E mi piace ancora. Ma il corso è impegnativo, e le lezioni in facoltà stanno diventando difficili. Non voglio trascurare né l’uno né l’altra. Tu ami questo tipo di studio più di me, e forse ora ne hai più bisogno. Cosa ne pensi?
Numan rimase in silenzio per qualche secondo. Dentro di lui qualcosa si strinse, un piccolo vuoto improvviso. La immaginò camminare nei corridoi del corso senza di lui, e sentì per un attimo l’eco del proprio respiro farsi più pesante. Poi, con un sorriso lieve, lasciò che la gratitudine prendesse il posto della malinconia.
— Temo solo di farti perdere qualcosa di bello… ma hai ragione. Posso continuare io, e raccontarti tutto la sera. Magari disegniamo insieme qualche esercizio qui, come se fossimo ancora allo stesso banco.
Muna sorrise, scrivendo una piccola nota a margine della pagina:
— Mi sembra la soluzione perfetta. E tu sarai la mia fonte ufficiale.
Numan rise piano.
— Ma ho una condizione.
Lei inarcò un sopracciglio, divertita:
— Una condizione? Quale?
Lui la guardò, ascoltando il vento di ottobre che muoveva le tende leggere della finestra:
— Che mi lasci, ogni volta che ridisegnerò un dettaglio, aprire una piccola finestra che si affacci sul tuo cuore. Così non perderò mai le cose più belle.
Muna rise sottovoce, poi mormorò:
— Accetto… la condizione, e anche di essere quella finestra di luce nelle tue lezioni.
Iniziarono, da quella notte, un nuovo ritmo di vita.
Al mattino andavano insieme alle aule dell’università: ascoltavano le lezioni, prendevano appunti, annotavano tutto ciò che poteva restare nella memoria — dalla letteratura islamica alla retorica, dalla grammatica alle altre materie che riempivano le loro giornate.
La sera, Numan continuava con dedizione il corso al “Istituto della Repubblica”. Scriveva note, scattava foto, raccoglieva esempi e schizzi.
Poi, tornavano entrambi nel loro angolo abituale della biblioteca di casa: sul vecchio tavolo di legno, sotto la luce gialla della lampada, l’arte e la conoscenza si incontravano. Le parole si fondevano alle linee dei disegni, e il sapere sembrava prendere forma come un quadro dipinto da due cuori.
Una mattina di sabato, grigia e umida di marzo, Numan uscì presto di casa. Lo accompagnavano il silenzio delle viuzze bagnate di rugiada e il calore del caffè che sua madre gli aveva preparato, sussurrandogli come sempre:
— “Che Dio ti apra la via, figlio mio…”
Alle otto in punto era seduto sul banco di legno accanto a Muna, nell’aula quattro della Facoltà di Lettere.
Alle cinque del pomeriggio, invece, sedeva da solo nel grande laboratorio di disegno dell’Istituto, circondato dal fruscio delle matite che scavavano la carta spessa, e dal mormorio degli studenti che misuravano, tracciavano, cancellavano.
Alzò lo sguardo di colpo quando il professore, con un accento straniero marcato, gli chiese:
— «Numan… qual è il centro visivo di questa elevazione?»
Numan rispose con sicurezza, dopo un breve silenzio:
— «Il centro visivo è l’arco al centro della facciata principale; ho mantenuto la sua simmetria rispetto alla linea d’ombra dell’angolo destro.»
Il professore annuì, soddisfatto.
— «Très bien, continuez.»
Alle otto di sera, mentre l’oscurità cominciava a distendersi sui marciapiedi di Damasco, Numan chiuse il quaderno e lasciò l’istituto, diretto verso casa del signor Ahmad.
Nella calda biblioteca, Muna lo aspettava: aveva appena finito di preparare una teiera di tè verde alla menta.
Indicò il suo quaderno aperto e disse:
— «Nella lezione di oggi abbiamo parlato dell’evoluzione della poesia islamica… dal tema delle rovine a quello della saggezza. Il professore ci ha citato un verso di Zuhayr ibn Abi Sulma:
Chi non sa adattarsi in molte situazioni… sarà morso dai denti e calpestato dagli zoccoli.
Abbiamo discusso della saggezza politica nella poesia… Tu hai mai letto qualcosa su questo?»
Rispose con un sorriso:
— «Sì, una squadra… che disegna e che vive.»
Era passato un mese dall’inizio del corso di disegno architettonico per Numan e Muna. Il signor Ahmed aveva dedicato a Numan un piccolo angolo separato della casa: una camera da letto con una libreria semplice, una scrivania per studiare, un tavolo per realizzare i disegni tecnici richiesti dal signor Ahmed, accanto al letto e a un armadio di legno; il tutto completato da un piccolo bagno e da una cucina. Qui Numan trovava tutto ciò che gli serviva per lavorare, studiare, leggere e ritirarsi per un momento di solitudine.
Giorno dopo giorno, continuavano ad imparare con passione sotto il tetto dell’“Istituto della Repubblica”, in una sala piena di righelli architettonici e modelli di edifici nati prima sulla carta bianca e poi destinati a vivere nella realtà.
Col passare dei giorni, le dita della primavera sfogliavano il calendario, e l’università riapriva le sue porte. I banchi, i quaderni, i corridoi che avevano sentito la mancanza degli studenti, riprendevano vita.
Una sera, mentre erano seduti nell’angolo abituale della biblioteca di casa, Muna sollevò lo sguardo dal quaderno e parlò con voce calma, come se stesse dialogando con un’idea coltivata a lungo:
— «Numan… e se tu continuassi il corso da solo, e io tornassi a seguire le lezioni all’università?»
Numan batté le ciglia, sorpreso, e la guardò per un attimo prima di appoggiare la matita e rispondere con voce bassa:
— «Vuoi abbandonare il corso? Perché? Non avevi detto che ti dava soddisfazione?»
Muna scivolò il dito sul bordo di una pagina con lo schizzo di una scala a chiocciola:
— «Sì… e mi piace ancora. Ma le lezioni all’istituto sono lunghe e faticose, e quelle all’università stanno diventando più impegnative. Non voglio trascurare nessuna delle due. A te piace questo tipo di studio più che a me, e forse ne hai bisogno più di me in questo momento… Che ne pensi?»
Numan rimase in silenzio, osservando la sua espressione calma, poi parlò con una voce che era più di ringraziamento che di accettazione:
— «Temo di perderti qualcosa di bello… ma hai ragione. Posso continuare e poi raccontarti quello che imparo la sera. Forse possiamo anche provare a progettare insieme qualche esercizio qui, come se fossimo ancora seduti allo stesso banco.»
Muna sorrise, annotando sul margine della pagina:
— «È la distribuzione migliore… e farò affidamento su di te come fonte fidata!»
Numan rise leggermente, poi aggiunse:
— «Ma ho una condizione.»
Lei alzò il sopracciglio, sorpresa:
— «Una condizione? Quale?»
Lui sorrise, ascoltando il vento di ottobre che muoveva le tende della finestra:
— «Che mi permetta, quando ridisegneremo ogni dettaglio, di mettere una piccola finestra che dia sul tuo cuore… così da non perdere nessun dettaglio bello.»
Muna rise, poi sussurrò:
— «Accetto… la condizione e il ruolo di finestra di luce nei tuoi studi.»
— «Meraviglioso… allora dobbiamo mescolare i nostri testi, il mio e il tuo… diventiamo due autori di un’architettura che somiglia a un sogno.»
Rimasero un attimo in silenzio, come se il silenzio stesso fosse parte del mestiere, poi Muna disse:
— «Numan… questa esperienza ci ha trasformati. Non parlo solo della professione, ma di qualcosa di più profondo… vediamo lo spazio come uno stato dell’animo, e il disegno come una lingua.»
— «Sì… e la cosa bella è che ora ti capisco meglio, quando parli di una dimensione estetica o inserisci una parola fuori posto apposta… per creare stupore.»
Muna allungò la mano per sistemare i fogli di Numan e sussurrò:
— «Dobbiamo completare il progetto in tempo… per far sorridere il tuo professore francese, e per dimostrare all’istituto che in una collaborazione così… nascono testi estetici che superano ogni misura.»
La sala era illuminata da una luce bianca e soffusa, proveniente dalle lampade sospese al soffitto metallico, che scivolava sui tavoli e sulle tavole da disegno come la luce chiara di una luna invernale.
Numan si mise accanto a Muna, aggiustandosi leggermente il colletto con una lieve tensione, mentre lei spolverava una macchia di polvere sul vetro che copriva il loro modello in scala.
Il modello davanti a loro — il loro progetto comune — rappresentava l’idea dello “spazio mobile all’interno della casa”, dove le linee classiche dell’architettura si integrano con concetti di apertura moderna, e l’idea fluisce con armonia tra i corridoi voltati e le stanze aperte alla luce del giardino interno.
Entrò il professor Lucien Vieille, un uomo sulla sessantina, elegante e misurato nei passi, con in mano un piccolo opuscolo e occhiali mezza montatura. Amico di lunga data del signor Ahmed, era stato invitato per valutare i progetti del corso, grazie alla sua esperienza nell’insegnamento dell’architettura moderna nelle università di Parigi.
Si avvicinò lentamente al tavolo, gettò uno sguardo iniziale, completamente silenzioso, e poi disse con una voce francese intrisa di arabo:
— «Chi sono gli autori di questo progetto?»
Numan alzò la mano e rispose con calma:
— «Siamo noi, professore… Muna ed io.»
Lucien Vieille sorrise leggermente, si aggiustò gli occhiali e inclinò la testa verso il signor Ahmed, che osservava dall’angolo, dicendo scherzando:
— «Ah, nascondevi degli studenti così talentuosi, Ahmed?»
Il signor Ahmed rise e rispose:
— «Non sono propriamente i miei studenti… ancora, ma li osservo da vicino.»
Il professore francese si chinò sul modello, scrutando angoli e dettagli, spostando lo sguardo tra linee, proporzioni e il flusso della luce nel piano illuminotecnico. Poi si raddrizzò, sollevò il sopracciglio sinistro e disse:
— «L’idea della profondità multipla in questo progetto… è brillante. Chi l’ha proposta?»
Numan e Muna si scambiarono uno sguardo rapido, poi Muna sorrise:
— «È stata un’idea condivisa, ma Numan ha insistito sul concetto dello spazio aperto che si estende all’interno della casa.»
Il professore annuì con ammirazione:
— «Geniale… lo spazio in architettura non è solo ciò che si costruisce, ma ciò che si percepisce… e voi siete riusciti a rendere questo modello percepibile.»
Poi, rivolgendosi a Numan:
— «Hai studiato architettura prima?»
Numan esitò un attimo, poi rispose:
— «Sognavo di farlo, poi il percorso è cambiato verso la letteratura… ma ora cerco di recuperare quel sogno, insieme a Muna.»
Il professor Vieille fissò Muna con uno sguardo lungo, poi disse:
— «Quando il sogno incontra il progetto, e la conoscenza incontra il gusto, nasce qualcosa che somiglia all’arte… questo lavoro, Ahmed, non è un semplice progetto di corso, ma la bozza di un talento che può essere affinato.»
Il signor Ahmed schiarì la voce e disse:
— «Vedi, Numan? Questa è la testimonianza di uno dei miei più grandi maestri… sii fiero.»
Numan sorrise timidamente, abbassando lo sguardo verso Muna, e sussurrò:
— «Senza di lei… non avrei avuto il coraggio di aprire una scatola di colori, né di disegnare un’idea su un foglio.»
Muna rispose con voce sicura:
— «E senza di te… non mi sarei attenuta a un solo dettaglio di questo lavoro, né avrei capito come trasformare un sogno in qualcosa di tangibile.»
Capitolo Venti 20:
Un giorno, dopo la lezione di grammatica, Numan rimase al suo posto, come se nel petto gli pulsasse una domanda che non voleva restare nelle tenebre. Non uscì con gli altri studenti, ma si rivolse al professor Asim con voce calma, carica però di una determinazione silenziosa:
— «Professore, mi permette… posso farle una domanda che va oltre il programma?»
Il docente sollevò lo sguardo, leggendo nel volto di Numan un desiderio che non si può ignorare, e disse:
— «Nella conoscenza, nulla va oltre il programma se la domanda è sincera.»
Numan esitò un attimo, poi chiese:
— «Stavo pensando… la grammatica è solo un insieme di regole per scrivere correttamente? O è qualcosa di più grande? Una mappa di noi stessi, noi arabi?»
Il professor Asim tacque per un istante, come se stesse ascoltando una domanda che aspettava da anni, e poi rispose:
— «Numan, la grammatica non è solo linguaggio… è lo specchio della mente, la mappa del pensiero. Se impari a organizzare una frase, impari a organizzare il tuo pensiero; se comprendi la sintassi, comprendi come una parola deve stare al suo posto, così come l’uomo deve trovare il suo posto nel tempo.»
Muna ascoltava, appoggiata al lato del tavolo, con gli occhi che brillavano di orgoglio, come se vedesse Numan rinascere.
— «E perché non ce lo dicono all’inizio? Perché trattiamo la grammatica come una punizione?» — chiese Numan.
Il professore sorrise, con quella calma che unisce serietà e gentilezza:
— «Perché molti insegnano la lingua come si insegna un corpo senza anima. Tu, invece, hai cominciato a percepirne il battito.»
La sala era a metà piena, e mentre Asim riordinava i suoi appunti, aggiunse con tono scherzoso ma autorevole:
— «Oggi faremo un piccolo esperimento… vi darò una frase della vita, non del libro, e chi la analizzerà a fondo, avrà da me una penna.»
Gli studenti ridacchiarono, e un mormorio percorse la stanza. La frase comparve sulla lavagna:
“A volte la verità tace, per non affaticare il cuore debole.”
Numan la fissò, come se stesse decifrando un codice emotivo, mentre Muna tratteneva il sorriso e sollevava la mano delicatamente.
— «Prego, Muna, liberaci da questa frase difficile» — disse il professore.
Lei iniziò con calma, scandendo ogni parola come un piccolo rituale:
— «Tace: verbo presente indicativo, il segno di elevazione è la vocale finale.
La verità: soggetto, l’intelligenza silenziosa, non ciò che è taciuto.
A volte: avverbio di tempo, indica il mutare del momento.
Per non: la preposizione di causa, indica la ragione, è uno strumento di delicatezza, non di durezza.
Affaticare: verbo presente con congiunzione “per”, il segno della sua coniugazione è la vocale finale.
Il cuore: complemento oggetto diretto.
Debole: aggettivo qualificativo.»
Si fermò un attimo e aggiunse:
— «E tutto questo per dire: la verità preferisce la misericordia alla rivelazione.»
Gli studenti applaudirono, e Numan sussurrò a sé stesso:
— «Non analizza le parole… rivela l’anima.»

La sera gettava la sua ombra sulle finestre di casa di Muna, e in quell’angolo, una piccola lampada illuminava i libri di lingua e i fogli degli esercizi, ondeggianti tra colori e appunti.
Numan si sedette di fronte a lei, sorseggiando il tè con cautela, come temesse che una parola sbagliata cadesse davanti ai suoi occhi attenti.
Muna, sfogliando il suo quaderno, disse:
— «L’esercizio di oggi sarà diverso… Ti metterò davanti una frase, e insieme proveremo a togliere una parola, per poi ricostruirla grammaticalmente e semanticamente… come se stessimo restaurando una poesia spezzata.»
Numan rifletté sull’idea e, con un lieve timore, chiese:
— «E se rovinassi l’intera poesia?»
Lei rise, rispondendo con calma:
— «La ricostruiremo insieme… non sei solo in questa lingua.»
Scrisse su un foglio:
“L’uomo costruisce la sua gloria con pazienza e conoscenza.”
— «Togliamo “conoscenza”… cosa succede?» — chiese.
Numan rimase in silenzio un attimo, poi disse:
— «La gloria appartiene a chi ha pazienza, non a chi sa… e qui possiamo dire: “L’uomo costruisce la sua gloria con pazienza e lungimiranza”» — aggiungendo un piccolo cambiamento, delicato.
Gli occhi di Muna scintillarono di ammirazione:
— «Molto intelligente… Non solo conosci la grammatica, ma sai anche pensare come un vero linguista.»
Numan si toccò il petto, mezzo scherzando e mezzo serio:
— «Allora… puoi stare tranquilla, professoressa Muna.»
Lei gli porse una nuova tazza di tè:
— «Solo se prometti che, dopo la prossima lezione, mi darai un caffè di analisi grammaticale.»
Risero insieme, mentre la luce li accompagnava in quella notte di apprendimento e scoperta.

La mattina seguente, calda e luminosa, Numan e Muna entrarono nell’aula magna, ma questa volta Numan non camminava all’ombra come al solito. C’era qualcosa di nuovo nei suoi passi… qualcosa che non somigliava a ieri.
Si sedettero in prima fila, e con uno sguardo rapido, Muna gli lanciò un’occhiata che sembrava dire: “Mostra chi sei.”
Il professor Asim entrò con il suo consueto passo sicuro, spargendo il suo sguardo tra i volti degli studenti, poi si fermò dietro il podio e, con voce ferma e autoritaria, disse:
— «Chi di voi vuole oggi declinare questa frase?»
Sul bordo della lavagna comparve la frase:
“Il successo non si dona, si conquista.”
Il silenzio cadde… alcune teste si abbassarono, gli occhi sui quaderni, come se la parola fosse una freccia pronta a colpire.
Ma Numan alzò la mano.
Il professore sollevò un sopracciglio, indicandolo senza commenti. Numan si alzò lentamente, ogni passo verso la lavagna scandito dal battito del suo cuore, teso ma determinato, ricordando le parole di Muna: “Sii sincero con la conoscenza…”
Si fermò davanti alla frase e disse con fermezza:
— «Il: particella di conferma e accusativo.»
Si voltò verso il professore come a chiedere il permesso di continuare; lui gli fece un cenno di sì.
— «Il successo: nome accusativo, segno dell’accusativo la fatha.»
— «La: particella di negazione.»
— «Si dona: verbo al presente passivo, soggetto sottinteso “esso”.»
Alcune teste si voltarono verso di lui… non era più lo studente esitante che evitava le domande.
— «Ma: congiunzione.»
— «Si conquista: verbo al presente passivo, soggetto sottinteso.»
— «Conquista: complemento assoluto confermativo del verbo, da fonte nominale, accusativo con fatha.»
Terminò e rimase in silenzio. Il professore lo guardò a lungo, poi disse lentamente:
— «Bene, Numan… anzi, meglio di prima.»
Un lieve sorriso fuggì sulle labbra di Muna, nascosto dietro il suo quaderno.
Numan tornò al suo posto, sentendosi quasi sospeso sopra la terra, come se camminasse su una riga di versi vittoriosi.
Un compagno gli sussurrò accanto:
— «Chi ti ha allenato?»
Numan, guardando il posto di Muna, rispose:
— «La grammatica… quando è nelle mani di maestri esperti, diventa comprensibile.»
________________________________________
Sei mesi passarono, tra notti e giorni trascorsi da Numan e Muna a studiare con dedizione per realizzare il piano tracciato dal loro insegnante di grammatica.
Il professore scrisse sulla lavagna un verso di poesia e chiese a ciascuno di declinarlo, analizzando parola per parola su un foglio separato, con precisione e completezza, citando ogni regola grammaticale e il relativo esempio tratto da poesia pre-islamica o dal Sacro Corano.
Ogni studente doveva scrivere il proprio nome in cima al foglio, perché la risposta corretta, completa e accurata, sarebbe valsa un punto su venti per il ciclo di ricerca dell’anno.
La frase da analizzare era:
“Qifa nabki min dhikra habibin wa manzili
bi saqti l-liwa bayna d-dukhuli fa-humali”
Gli studenti scrivevano, e col passare del tempo consegnarono i fogli. All’uscita dall’aula, iniziarono le discussioni e i confronti.
— «Qifa: verbo imperativo al presente, la waaw è pronome sottinteso come soggetto sostituto, significa “alzatevi”».
Un altro correggeva: «Qifa: imperativo con caduta della n finale».
— «Come hai analizzato “bayna”?» chiese una studentessa.
— «Bayna: preposizione che governa il nome successivo», rispose la compagna.
— «No, è un avverbio di luogo accusativo!» replicò la prima.
Così si susseguì un lungo dibattito tra sostenitori e contrari, fino a quando il professor Asim, il giorno della lezione successiva, entrò con le mani piene di fogli, tutti letti.
Gli studenti alzarono le mani per domande e chiarimenti, ma il professore estrasse un solo foglio e lo lesse lentamente, dopo aver chiesto a tutti di trascriverlo letteralmente.
Quando finì, aggiunse:
— «Non rivelerò il nome dello studente che ha prodotto la risposta attesa, così che non si monti la testa. Questo è il primo punto su venti.»
I volti si guardarono, cercando di indovinare chi fosse il fortunato, ma il proprietario della risposta rimase in silenzio. Solo il professore e chi aveva discusso con lui sapevano la verità.

Sulle soglie del sogno 05

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