Sulle soglie del sogno 05

Parte Quinta 05
Capitolo Ventuno 21:
La materia di letteratura preislamica era una delle più affascinanti per gli studenti del primo anno, soprattutto perché il professor Wahb Roumiya, con la dolcezza della voce e la solidità del pensiero, ne curava l’insegnamento. Il suo celebre libro, Il viaggio nella letteratura preislamica, non era solo un testo da studiare: era un’esperienza da vivere, ricca di visioni e di incontri con mondi lontani.
In una delle sessioni serali, mentre Muna sfogliava lentamente le pagine, come se cercasse un segreto nascosto, sollevò lo sguardo verso Numan:
— Sai una cosa? — disse — Questo libro non parla solo dei poeti del deserto… parla di noi. Di me e di te.
Numan sorrise, aprendo il suo quaderno di appunti:
— Forse perché anche noi siamo in viaggio… un viaggio di un altro tipo, che ancora non sappiamo quando comincia e quando finirà.
Il libro del professor Roumiya era più di uno studio accademico: sembrava una porta segreta che si apriva su un universo intero di poesia e di esistenza. Già dalle prime pagine, l’autore chiariva che il viaggio nella letteratura preislamica non era un semplice passaggio da un luogo all’altro, ma un’esperienza umana completa, incarnata nei testi come modalità di esistere e di pensare.
In uno dei loro dialoghi, dopo aver terminato la revisione del primo capitolo, Muna annotò nel quaderno una frase:
— «Il viaggio non è un luogo, ma una domanda che viaggia dentro di noi»… solo questa frase meriterebbe un libro intero.
Numan avvicinò gli occhiali agli occhi:
— O forse meriterebbe di scriverne su di noi, se avessimo il coraggio!
I capitoli del libro erano organizzati secondo vari assi tematici. Il primo esplorava il concetto di viaggio nella letteratura preislamica: secondo Roumiya, il viaggio non era una scelta per l’arabo antico, ma una necessità imposta dalla dura realtà del deserto. E sebbene cominciasse come esperienza materiale, il viaggio tendeva sempre verso il simbolo e il significato: esistenza, smarrimento, ricerca, sfida e conquista del destino.
Il secondo capitolo era dedicato ai diversi tipi di viaggio nella poesia preislamica: dal viaggio interiore, che si manifesta nel sostare tra rovine e nel meditare, al viaggio dell’amante in cerca della sua amata, fino ai viaggi di caccia e di guerra, carichi di orgoglio, abilità e coraggio.
Muna fissò a lungo un’illustrazione nel libro, un cammello che avanzava solitario nel deserto:
— Pensi che Antara sentisse davvero la solitudine, o che ‘Abla fosse con lui in ogni battaglia, nel cuore?
— Forse combatteva per vedere i suoi occhi negli occhi dei nemici… o forse fuggiva dalle proprie debolezze, come facciamo noi con cose che non abbiamo il coraggio di nominare. — rispose Numan.
Nei capitoli successivi, Roumiya smontava e analizzava la struttura estetica e intellettuale del viaggio, adottando un approccio filosofico-interpretativo. La poesia diventava un organismo vivente, in cui il significato scorreva e pensava. Secondo lui, il viaggio nella poesia preislamica non era un evento, ma una struttura simbolica che esprimeva lo scisma tra fermezza e movimento, tra io e mondo, tra nostalgia e destino.
Numan si fermò su una pagina dedicata all’analisi della Mu‘allaqa di Tarafa ibn al-‘Abd:
— Forse è questo che rende eterna la poesia preislamica… la sua apparente semplicità nasconde abissi senza fondo.
Muna, indicando il margine, aggiunse:
— Esatto. Qui è scritto: “Il poeta non descrive il luogo, lo abita.” Non è ciò che facciamo quando leggiamo? Abitiamo la poesia.
Quando si avvicinava l’esame, Numan e Muna avevano memorizzato decine di versi e brani, pronti a citarli e a discuterli in sessioni private nella stanza di Numan, nel cortile dell’istituto o sulle scale dell’affollata aula.
All’esame finale, gli studenti dovevano scegliere tra due temi. Numan decise di scrivere sul viaggio nella poesia di ‘Antara ibn ‘Absi, il cavaliere innamorato che dedicava le sue vittorie ad ‘Abla, mentre Muna scelse i viaggi di Imru’ al-Qays nelle sue Mu‘allaqat, tra rovine, caccia, smarrimento e pioggia.
Una settimana dopo l’annuncio dei risultati, erano seduti insieme su una panchina nel giardino dell’istituto. Muna teneva in mano il foglio e disse:
— Abbiamo preso il massimo… entrambi!
Numan sorrise, sfogliando il suo quaderno:
— Sembra che il nostro primo viaggio sia riuscito.
La guardò a lungo, e lei aggiunse:
— No… il viaggio è appena cominciato.
Luogo: la stanza di studio nell’ala di Numan, casa del signor Ahmad.
Tempo: una sera d’autunno, dopo la fine degli esami del secondo semestre, a settembre.
L’aria nella stanza era calda, pervasa dal profumo dei libri bagnati dalla pioggia, e una lampada fioca diffondeva una luce dorata sui volti di Numan e Muna, seduti ai lati opposti del tavolo di legno che avevano preso l’abitudine di usare per lo studio.
C’era una sensazione di rilassamento dopo la tensione degli esami, e un’apertura al dialogo dopo un lungo silenzio. Muna, chiuso il quaderno degli appunti dopo aver annotato ciò che aveva colpito la sua memoria, lo guardò con occhi luminosi, carichi di un bagliore inconsueto:
— Numan… il secondo semestre è finito e tu hai insistito per rimandare l’esame di letteratura preislamica. Avevi ragione, o avevi solo bisogno di più tempo con le poesie?
— Avevo bisogno di più tempo, sì… ma non solo per capire le poesie — rispose Numan — ma perché ciascuno di noi potesse comprendere se stesso, dare loro il tempo necessario, leggere versi che richiedono un insieme di conoscenze e capacità imprescindibili.
Muna inclinò leggermente la testa, sollevando le sopracciglia con sincera curiosità:
— Come cosa, per esempio?
Numan la fissò, gli occhi brillanti di divertimento, come chi ricorda un tesoro prezioso, e disse:
— Muna… non ti ricordi della stimata dottoressa, la professoressa Aziza Mureddin, che ci insegnava la materia della biblioteca araba?
Lei scosse la testa sorridendo, con un misto di nostalgia e sollievo:
— Certo, la ricordo bene… e che c’entra?
Numan inspirò profondamente, come se richiamasse alla memoria lo spirito di quelle lezioni:
— Non notasti come, in ogni lezione, ci presentava un piccolo testo letterario, spesso di poche righe? Eppure ci invitava a immergerci completamente in esso fino alla fine del tempo, senza renderci conto di quanto era passato… ci guidava nella lettura letteraria, pur essendo il professor Wahb a insegnare la letteratura. Lo apriva linguisticamente, come a completare il lavoro del professor Asim sulla grammatica… e poi lo illuminava con riflessioni profonde, come se richiamasse le lezioni del professor As’ad Ahmad Ali dal suo Arte della vita.
Gli occhi di Muna si spalancarono per lo stupore, e afferrò subito il filo del discorso:
— E la bellezza del linguaggio? Anche quella la trattava?
— Certo… come se evocasse il professor Muhammad Ali Soltani nella bellezza espressiva… e non dimenticare la metrica: se il testo era poesia, alludeva alla sua musica, proprio come faceva il padrone di musica poetica… arrivava a risvegliare nel testo l’aroma della storia, senza mai uscire dalla dimensione del senso.
Numan fece una pausa, poi continuò, sfiorando delicatamente la copertina del libro:
— Allora ho capito, Muna, che un testo letterario, sia esso prosa o poesia, non si legge con un solo occhio… serve un occhio linguistico, uno letterario, uno critico e uno musicale… è come se ci volesse un intero consiglio di esperti per leggere un solo verso in modo autentico.
Muna abbassò lo sguardo, riflettendo, poi disse con voce bassa e un filo di dolce rimprovero:
— Ora capisco perché insistevi a far sì che l’esame di letteratura preislamica fosse l’ultimo… ma perché non me l’hai detto prima?
Numan rise, distogliendo lo sguardo con un gesto di complicità, come per nascondere le sue vere intenzioni:
— Perché non avevi bisogno di avvertimenti, Muna… hai superato me in molte materie d’esame… non vuoi forse che io ecceda almeno una volta?
Muna lasciò scappare una breve risata, mescolanza di orgoglio e affetto:
— Ora capisco il senso del viaggio nella letteratura… e forse anche il viaggio nella vita, Numan.
Posò la mano sotto il mento, osservandolo con stupore:
— Ecco perché sembra che tu viaggiassi con quei poeti?
Numan annuì:
— Esatto… ho sentito di correre dietro ad ‘Abla come Antara, di trascinare i miei passi su rovine che non conoscevo… ogni verso era uno specchio dello stato d’animo che provavo. Ti ricordi quante volte rileggevo la descrizione del cammello, non per memorizzarlo, ma perché era diventato il simbolo della fatica e del sogno…
E aggiunse, con un filo di reverenza:
— Antara apre la sua Mu‘allaqa con quella domanda retorica che sfida il lettore: il poeta rimane tra le rovine già visitate da altri poeti? E il dubbio sull’interpretazione del passato… quel “motraddam” indica il luogo consunto e sovrascritto, e il termine “tawahhum” suggerisce il dubbio sulla percezione… è come se il tempo e lo spazio si dissolvessero.
«O casa di ‘Abla nel deserto, parlami,
e buongiorno a te, casa di ‘Abla, salutami.»
Numan evocava la dimora come se fosse un essere vivente, cercando di farle parlare, di farle rivivere i ricordi. Non era solo una tradizione poetica preislamica: era il suo modo personale di aggiungere un tocco di passione, di amore profondo per ‘Abla. Unendo stile classico ed esperienza intima, rendeva la poesia viva.
Muna sorrise piano, quasi in un sussurro:
— Anch’io ho sentito che Imru’ al-Qays assomigliava un po’ a me… nel suo esitare, nei viaggi nel deserto, tra desiderio e incertezza, tra la pioggia e l’attesa. Ma nell’esame non ho scritto di lui come si scriverebbe un rapporto: era più come una lunga lettera.
Numan strinse leggermente gli occhi, curioso:
— Come se lo rimproverassi?
Muna rise e annuì:
— Sì, e a volte lo consolavo. Alla fine gli ho detto: la poesia non ci salva dal vagare, ma ci offre una mappa per capire come ci siamo persi.
Numan si appoggiò al tavolo, avvicinandosi appena, la voce più vicina a un sussurro:
— Io ho scritto di Antara… della sua viaggio non solo come cavaliere, ma come amante che combatte per donare la vittoria a una donna che non gli ha mai dichiarato apertamente il suo amore.
Muna, colpita da ciò che diceva, si inclinò verso di lui:
— Parlavate davvero di ‘Abla?
Numan sorrise senza rispondere, fissando il vapore che si alzava dalla tazza di caffè, poi disse:
— In ogni viaggio c’è una destinazione, e in ogni destinazione c’è la possibilità di essere delusi… ma ho deciso di scrivere dell’amore, anche se finisce nel deserto.
Muna si appoggiò indietro, poggiando la mano sul cuore, come per sentire l’eco delle sue parole dentro di sé, e disse con sincerità:
— Sai? Quando ho letto la tua risposta, dopo che me l’hai mostrata, ho avuto la sensazione che avessi scritto di un uomo che attraversa il deserto a piedi nudi, non per arrivare, ma per non fermarsi.
Numan la guardò a lungo, e sussurrò:
— A volte non possiamo arrivare… ma possiamo continuare.
Muna prese delicatamente la sua mano, gli occhi caldi e fermi:
— Credo che non abbiamo sostenuto l’esame di letteratura da soli… lo abbiamo sostenuto insieme, con la scrittura e con i sentimenti, per mesi. Il voto che abbiamo preso era meritato… perché abbiamo capito la poesia non solo con la mente, ma anche con il cuore.
Dietro la porta, la voce di Mr. Ahmad, dopo un leggero bussare:
— Muna?
Muna guardò Numan, poi si alzò e aprì la porta al padre, dicendo dolcemente:
— Papà… stavamo parlando dell’esame di letteratura preislamica… e del viaggio nella poesia preislamica.
Mr. Ahmad entrò nella stanza, accarezzando la spalla di Numan e sorridendo:
— Bello… ma non dimenticate che alcuni viaggi hanno bisogno di una guida saggia.
Numan rise timidamente e disse:
— E io pensavo che avessimo trovato la nostra migliore guida, non solo nella poesia… ma anche nella vita. L’abbiamo trovata nelle persone a noi più vicine.
Mr. Ahmad si voltò verso Numan e Muna, un lampo di idea brillando nei suoi occhi, pronto a condividerla.
Parlò con la calma di chi sta progettando qualcosa di piacevole:
— Dal momento che avete appena finito gli esami e avete un po’ di tempo prima dell’inizio del nuovo anno… in realtà ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a completare alcuni disegni tecnici. Che ne dite?
Numan si voltò verso di lui, attento, mentre Muna sollevò gli occhi dal suo taccuino, con una scintilla di curiosità che le illuminava il volto.
Mr. Ahmad estrasse dalla sua cartella un piccolo foglio e aggiunse:
— Questo è il bozzetto!
Capitolo Ventidue 22:
Tutti erano abituati a lunghi dialoghi e discussioni, spaziando dalla vita personale alla cultura generale, dalle esperienze acquisite ai momenti di svago o alle serate insieme.
Durante quegli anni che li avevano uniti nella collaborazione, nell’affetto e nella sincerità, Numan raccontava loro della sua vita. A volte della sua infanzia, altre dei periodi di studio, qualche volta del lavoro, spesso della passione per la lettura che aveva trasformato in parte integrante di sé.
Numan aveva seguito un corso intensivo di disegno tecnico e architettonico, che gli aveva permesso di offrire aiuto nei disegni artistici legati ai progetti dello studio di Mr. Ahmad, quello stesso studio che gestiva le sue attività fino in Libano, pur trovandosi a Damasco.
Nonostante il suo appartamento fosse separato, le serate e le mattine li vedevano spesso riuniti attorno alla tavola per colazioni e cene, seguite da lunghe ore di conversazioni, dibattiti o ricordi caldi e avvolgenti.
Una notte, mentre erano insieme Muna, Mr. Ahmad e lui, Numan disse:
— Vi racconterò un periodo della mia vita nei dettagli, anche se forse noiosi… ma spero di non annoiarvi con la mia storia.
Muna lo interruppe, ansiosa:
— Io ho sempre aspettato che tu ci aprissi il cuore, per vivere con te i più minuti dettagli della tua vita… Parla, e ti prometto che non ti interromperò mai. Ma aspetta che prenda ciò di cui abbiamo bisogno mentre ci godiamo il tuo racconto.
Quando tornò con gli appunti, Numan sorrise, voltando lo sguardo verso la finestra, come se stesse rivedendo un nastro lontano della sua infanzia:
— Nella mia vita non c’è nulla di speciale… tranne mia madre.
Fece una pausa, la voce che scendeva sulle parole come pioggia su un vetro invernale.
Muna inclinò il capo verso di lui, dolcemente:
— Tua madre?… In che senso?
Rispose con tono caldo, come se scrivesse un messaggio di gratitudine sul quaderno del cuore:
— Mia madre è stata la ragione per cui mio padre, e persino mio nonno, hanno acconsentito a iscrivermi a scuola. Senza di lei, oggi sarei altrove… completamente altrove.
Il padre ascoltava in silenzio, le mani intrecciate sulle ginocchia, sul volto una traccia di un ricordo lontano.
Numan continuò, sorridendo come parlasse a un bambino dentro di sé:
— Ricordo bene il primo giorno… quando mio padre mi accompagnò alla scuola elementare. La scuola non era lontana, solo un quarto d’ora a piedi, ma quella strada mi sembrava allora molto più lunga… come se stessi camminando verso la città stessa del sogno.
Muna rise sommessamente:
— E eri impaziente per quell’inizio?
— Contavo i giorni, anzi le ore, con un’ansia indescrivibile. Passando davanti alla porta di legno, fissandola come fosse un portale segreto, desideravo soltanto che si aprisse un giorno per me.
Il padre di Muna intervenne, annuendo con la testa:
— I sogni più semplici dell’infanzia… portano i significati più profondi quando li comprendiamo più tardi.
Numan annuì, concordando, e aggiunse:
— L’imam della moschea vicino alla scuola era un uomo rispettabile, amico di mio nonno. Mio padre aveva studiato con lui, memorizzando versi del Corano quando aveva la mia età. Non so perché mi ci fossi affezionato… ogni sera lo aspettavo prima del tramonto, e quando passava davanti alla bottega di mio nonno per andare in moschea, mi prendeva per mano e ci andavamo insieme.
Muna lo guardò con occhi brillanti, affascinata dalla scena:
— E non avevi paura? Piccolo, di notte, andando o tornando dalla moschea, a studiare il Corano?
Numan sorrise, come se ascoltasse una voce antica dentro di sé:
— Non avevo paura… sentivo di compiere un compito sacro. Pregavamo il Maghrib e l’Isha, e nel tempo tra le due preghiere studiavamo i versetti a memoria. L’imam correggeva la mia pronuncia con pazienza… e posava la mano sulla mia spalla come se volesse seminare qualcosa in me che non dovesse mai sparire.
Inspirò profondamente e aggiunse:
— Quando arrivavamo, mi restituiva a mio nonno dicendo quella frase che non dimenticherò mai: “Questa è la vostra fiducia. Ve la restituisco.”
Seguì un breve silenzio, rispettoso. Poi Muna parlò con voce vibrante:
— Quante fiducie vengono restituite… ma non tornano mai come prima.
Il padre di Muna annuì lentamente:
— Ma la fiducia del cuore… se custodita come l’ha custodita quell’imam, genera uomini come Numan.
Numan parlò a bassa voce, sfogliando ricordi che non sbiadivano nonostante gli anni passati:
— Ascoltavo certe conversazioni tra mio padre e mio nonno, a volte tra mio padre e mia madre… e tutte ruotavano intorno a me. Alcune cose le capivo, altre no.
Muna alzò leggermente le sopracciglia, incuriosita:
— Intorno a te? E di cosa parlavano?
Numan sorrise, un sorriso misto di nostalgia e dolore:
— Mio nonno pensava che andare in moschea e studiare il Corano con l’imam fosse sufficiente, e diceva che ero troppo piccolo per la scuola, che il mio corpo era fragile e non avrebbe sopportato né il freddo dell’inverno né il caldo dell’estate.
Il padre di Muna scosse la testa, comprensivo:
— Era una generazione che temeva la malattia più dell’ignoranza… forse talvolta a ragione.
Numan continuò, come spiegando qualcosa che aveva vissuto molte volte:
— In realtà… non passava mese senza che trascorressi almeno una settimana a letto. Febbre improvvisa, brividi che mi percorrevano le ossa, tremavo come se fossi al centro di una tempesta gelata.
La voce di Muna intervenne, preoccupata e delicata:
— E come si prendevano cura di te in quei momenti?
Numan abbassò leggermente la testa:
— Ogni volta mio padre mi portava dal medico… e a volte una delle zie sagge di mia madre mi sedeva sulle ginocchia, infilava il dito nel mio cavo della gola, premeva le tonsille, una dopo l’altra…
Muna sobbalzò, esclamando con stupore infantile:
— Mio Dio! Faceva male?
Numan rise brevemente:
— Sì, faceva male… ma estraeva un male strano, e mi diceva con certezza: “Ecco la ragione di tutto ciò che soffri.”
Il padre di Muna sorrise, contemplativo:
— Le madri e le nonne conoscono molto di più di quanto si insegna nelle scuole di medicina.
Numan, con voce più triste, aggiunse:
— A volte la febbre mi colpiva improvvisamente, perdevo conoscenza del tutto… cadevo a terra senza preavviso, come una candela spenta in un battito di ciglia.
Seguì un breve silenzio. Poi Muna parlò, come rivolgendosi al bambino che era stato:
— Numan… eri così fragile, eppure anche così forte.
Numan sorrise, un sorriso che non raggiungeva gli occhi, e disse con calma:
— La fragilità non annulla la forza, Muna… può avere la sua propria via per resistere.
La sua voce portava un’ombra di gratitudine, come se stesse rivivendo un ricordo prezioso:
— Mia madre… vedeva ciò che nessun altro vedeva.
Muna lo guardò in silenzio, come se stesse ascoltando per la prima volta il battito del suo vecchio sogno. Il padre di lei, con voce calma, aggiunse:
— Questa è una madre… il suo cuore vede sempre più degli occhi di tutti.
Numan continuò, plasmando le parole come se stesse riordinando la memoria davanti a loro:
— Mia madre insisteva sempre con mio padre:
“Dobbiamo affrettarci a iscrivere nostro figlio a scuola, non possiamo aspettare oltre. Se perde quest’anno, perderà un altro, e continueremo a ripeterlo ogni anno… rimarrà indietro rispetto ai coetanei.”
Fece una pausa, come se la voce di sua madre fosse tornata viva dentro di lui, poi riprese:
— Diceva anche:
“Abbiamo passato la vita senza leggere né scrivere, ciechi in pieno giorno… non meritano i nostri figli di imparare? Imparare e insegnarci la vita, diventare lo specchio attraverso cui osserviamo il mondo? La vita non è solo cibo, acqua e figli… ma comprensione, apprendimento e crescita.”
Il padre di Muna scosse la testa, ammirato:
— Tua madre pensava come se stesse insegnando al futuro a scrivere se stesso.
Muna, lanciando uno sguardo laterale verso suo padre, commentò:
— Mi ha colpito molto quella frase: “imparare e insegnarci la vita”. Che profondità!
Numan continuò, come se la memoria prendesse vita da sola:
— Mio padre, invece… era esitante. Mi amava fino alla paura, temeva per me come se fossi fragile. Il suo timore maggiore era che potessi avere un attacco di febbre a scuola o lungo la strada… Così oscillò tra le opinioni di mio nonno per quasi due anni.
Sospirò, e aggiunse:
— Posticipava la mia iscrizione, una volta per convincere se stesso, un’altra per convincere suo padre. Credeva che, più aspettavo, più sarei cresciuto e guarito, e che la scuola mi sarebbe sembrata meno severa.
Fece una pausa, poi i suoi occhi si illuminarono di un orgoglio silenzioso:
— Ma mia madre era più astuta. Gli propose che continuassi ad andare in moschea come desiderava mio nonno, imparando la recitazione e il Corano con l’imam, così che quando avessi terminato il ciclo, tutto sarebbe stato naturale agli occhi di tutti.
Muna, curiosa, chiese:
— E tuo nonno era d’accordo?
Numan rispose con tono leggero:
— Sì!… Anzi, si sentì come se avesse vinto.
Risero insieme, e Numan aggiunse:
— Quanto alla paura delle febbri improvvise, mia madre trovò una soluzione gentile. Chiese a mio cugino Ahmad, che era due anni e mezzo più grande di me, di accompagnarmi a scuola e tornare con me… e così fece.
Il padre di Muna, con voce emozionata, commentò:
— Tua madre era una scuola intera nel cuore di una sola donna.
Muna sorrise, dolcemente:
— Se nella tua vita non ci fosse stata lei, sarebbe stata sufficiente a far sì che il sogno valesse la pena di essere scritto.
Numan girò i ricordi come se stesse sfogliando le scene di un vecchio film:
— Mio padre accettò la proposta di mia madre senza discutere. Sembrava sollevato dall’idea che mettesse tutti d’accordo, e alla fine convinse anche mio nonno, dopo lunghe resistenze e silenzi.
Muna annuì, con un filo di nostalgia, e chiese delicatamente:
— E il giorno in cui sei entrato a scuola… era come te lo immaginavi?
Numan sorrise, e nei suoi occhi brillava l’ombra del bambino spaventato:
— Era un misto di gioia e apprensione… Entrai finalmente nella scuola elementare, che all’epoca era una vecchia casa araba affittata come sede di studio. Nel cortile centrale c’era una piccola fontana circolare, che gorgogliava un suono leggero, come un respiro freddo nelle prime ore del mattino.
Il padre di Muna commentò, ammirato:
— Perfino la tua scuola ha tratti vivi… Conosco bene queste vecchie case di Damasco: muri di fango e paglia, soffitti di legno, con l’odore del tempo che ti accompagna camminando sotto di essi.
Numan proseguì, ignorando il nodo che gli stringeva il cuore:
— La prima volta che varcai quella grande porta di legno, sentii di entrare in un mondo diverso da tutto ciò che conoscevo. Entrammo nello studio del preside; mio padre consegnò i documenti con una mano tremante. Il preside alzò un sopracciglio, con voce ferma:
“È passato troppo tempo dalla chiusura delle iscrizioni… L’anno è già iniziato da mesi.”
Mio padre lo guardava con sincera supplica, chiedendo con gentilezza di accettare la mia iscrizione. Io osservavo la scena con occhi colmi di speranza e ansia… fissavo il preside come a implorarlo di perdonare quel ritardo, che non era colpa di mio padre.
Muna, passando il dito indice sul tavolo, mormorò:
— Conosco quella sensazione… quando gli adulti lottano in silenzio per assicurare un piccolo posto nel mondo ai loro figli.
Numan continuò:
— Mentre la tensione riempiva la stanza, entrò un insegnante, salutò e chiese al preside un registro e il foglio di richiamo per uno studente pigro. Poi si voltò e, come se fosse sorpreso di trovare mio padre lì, si avvicinò, lo salutò calorosamente e chiese il motivo della sua presenza. Mio padre gli spiegò e gli chiese di aiutarlo a convincere il preside… Tra loro si scambiarono parole che noi sentimmo solo come sussurri sommessi.
Il padre di Muna intervenne:
— Sono le coincidenze del destino a cambiare i destini interi.
Numan annuì:
— Infatti… dopo pochi istanti, il preside prese i documenti dalle mani di mio padre. L’insegnante si avvicinò a me, mi prese per mano e disse con decisione:
“Io accompagnerò Numan nella sua classe e mi occuperò di recuperare le lezioni perse.”
Mi sentii come se ricevessi una grazia celeste. Scoprii poi che quell’insegnante era un parente di mio nonno materno, e che i miei nonni erano lì in visita, come ogni lunedì, il giorno di vacanza dei barbieri… Mia madre li aveva informati che mio padre mi stava portando a scuola, temeva solo che il preside potesse rifiutare l’iscrizione per il ritardo o per la mia età: i miei coetanei erano già in terza o quarta elementare… mentre io ero ancora sulla soglia della prima classe.
Muna alzò lo sguardo verso di lui, commossa:
— Forse quella mano dell’insegnante fu la prima a spalancarti la porta del sogno…
Numan rispose con voce bassa, intrisa di gratitudine:
— Sì… e forse quella mano fu anche la prima riga di tutta la mia storia.
Numan lasciò che le parole scorressero lentamente, come se stesse srotolando un filo da una sciarpa antica:
— Mio nonno sapeva che un suo parente insegnava in quella scuola. Corse subito lì, come se l’ansia che lo tormentava a casa si fosse trasformata in energia irrefrenabile. Entrò e chiese del parente, lo incontrò e parlò con voce sommessa… non so se ci fosse rimprovero o urgenza nelle sue parole.
Muna lo osservava con un’espressione quasi infantile, piena di concentrazione e tenerezza:
— E tu eri ancora nello studio del preside quando arrivò tuo nonno?
Numan annuì:
— Sì, non sapevo del suo arrivo… Dopo poco apparve l’insegnante con cui ero venuto, e la sorpresa si leggeva sul suo volto quando vide mio padre. Non insistette con lo sguardo, prese la mia mano con delicatezza:
“Vieni, Numan, ti mostrerò la tua classe…”
Lo seguii, fissando ancora il pavimento, come se cercassi di spiare il nuovo mondo da sotto i miei piedi. Passando accanto a una classe, un pianto acuto squarciò il silenzio, come se una lama l’avesse trafitto.
Il padre di Muna si fece serio:
— Un pianto?! Di un alunno?
Numan annuì lentamente:
— Sì… mi fermai, cercando di capire da dove provenisse. Un bambino piccolo sedeva su una sedia di canna, quella su cui normalmente si sedeva l’insegnante. Due compagni lo tenevano fermo, mentre un uomo massiccio, dal fisico possente, lo colpiva con un bastone spesso sui palmi dei piedi… Non dimenticherò mai quella scena. Poi scoprii che quell’uomo era l’insegnante della classe.
Muna mise la mano sul petto, sussurrando:
— Mio Dio… questo è tortura, non insegnamento.
Numan continuò, la voce così bassa da sembrare timorosa di risvegliare il dolore dell’infanzia:
— La scena mi terrorizzò… il sangue mi gelò nelle vene. Strappai la mano dalla presa dell’insegnante e corsi via piangendo, senza sapere se stessi correndo o inciampando. Tutto ciò che ricordo è che le lacrime mi scorrevano come un piccolo torrente di paura. Gridai a squarciagola:
Non voglio la scuola! Non mi piace! Voglio tornare a casa!
Vidi mio nonno alla porta di legno della scuola, come se mi avesse udito da lontano, e corse verso di me. Mio padre, uscito poco prima dallo studio del preside, si precipitò anche lui.
Il padre di Muna scosse la testa, mesto:
— Una scena del genere può uccidere il sogno sul nascere… non sorprende che tu abbia pianto così.
Numan concluse:
— Mi raggiunse l’insegnante con cui ero arrivato. Mi prese di nuovo per mano, mi rassicurò, mi accarezzò la schiena e ordinò a mio padre e a mio nonno di lasciare subito la scuola, come se volesse separarmi da quell’immagine di terrore prima che si radicasse dentro di me per sempre.
Fece una pausa, poi riprese, un sorriso appena accennato agli angoli delle labbra:
— Eppure, in mezzo a tutto quel terrore che mi aveva sopraffatto, non ho mai lasciato la mia mano dal cinturino della mia cartella… quella vecchia cartella che mia madre mi aveva comprato due anni prima, preparando al suo interno tutto ciò che avrei potuto aver bisogno nel mio primo giorno di scuola… Era come se vi mi aggrappassi come all’ultimo filo che mi legava a mia madre… o al sogno.
Gli occhi di Muna scintillarono:
— La cartella era la tua memoria sicura… la tua nostalgia in movimento.
Numan continuò, la voce calda e sommessa, evocando un’ombra affettuosa del passato:
— Ho concluso il primo anno con ottimi voti, non per genio o per amore dello studio, ma per una paura profonda nel cuore… temevo ogni istante di essere escluso, che mi si dicesse “non sei capace!”, o, Dio non voglia, che diventassi quel bambino che veniva gettato sulla sedia di canna e percossa con il bastone… Raccontai tutto a mia madre, della paura che mi svegliava nel sonno come un incubo che divorava il petto, e lei capì che la soluzione non era fuggire, ma proseguire… ma senza essere solo.
Muna sollevò un sopracciglio, visibilmente commossa:
— Tua madre ti seguiva nello studio personalmente?
Numan sorrise, ma un sorriso diverso, più intimo:
— Lo gestiva come se gestisse una casa di fango sul punto di crollare, con dita leggere che non sbagliavano mai a posizionare una paglia nel fango… Da quel giorno mi preparò un programma che non cambiava mai, diventando un rito sacro che praticavamo ogni sera.
Il padre di Muna, con ammirazione nella voce, chiese:
— Un programma? Che tipo?
Numan enumerò, come se tornasse con la mente a quel pavimento freddo che aveva segnato i suoi primi ricordi scolastici:
— Primo, mi tolgo i vestiti della scuola e facciamo la abluzione per la preghiera. Dopo la preghiera, pranziamo, poi laviamo mani e bocca… Poi ci sdraiamo sul pavimento, io e mia madre, in parallelo, con davanti a noi un libro e due quaderni. Io impugno la mia matita, lei l’affila, come se tenesse l’arma pronta.
Poi iniziano i compiti, uno dopo l’altro, come una lezione di vita più che di scuola:
● Prima missione: sillabare e leggere le parole della lezione, parola per parola, come l’Imam della moschea che ci insegnava tra il Maghrib e l’Isha… mia madre ne imitava il tono, a volte mi sembrava che stessimo memorizzando il Corano, altre volte che stessimo memorizzando il mio cuore insieme.
● Seconda missione: rileggere la lezione più volte, finché la lingua non conosceva più paura o inciampo, come se restituissi serenità alle parole.
● Terza missione: trascrivere le parole sul primo quaderno, una bozza in cui esercitarmi a replicare esattamente la forma delle parole, ogni punto al suo posto.
● Quarta missione: scrivere ciò che avevo imparato sul quaderno delle esercitazioni, quello che l’insegnante avrebbe visto… era la mia finestra sul mondo esterno, una finestra che amavo tenere pulita e luminosa.
Muna, negli occhi, aveva l’immagine di una madre che osserva il figlio con silenzioso affetto:
— Che dedizione… tua madre non ti seguiva soltanto, ti formava!
Numan annuì, continuando con voce bassa:
— Ho continuato così, giorno dopo giorno, sotto la guida amorevole di mia madre, fino a diventare capace di completare i compiti da solo, senza paura di sbagliare, come se lei mi avesse piantato fiducia nel cuore… E nonostante fosse impegnata con le faccende di casa, confrontava ogni bozza con il libro, ascoltava la mia sillabazione, mi correggeva nella pronuncia, riascoltava tutta la mia lettura prima di permettermi di scrivere la lezione sul quaderno della scuola.
Ci concedevamo brevi pause, bevevamo il tè, ridevamo per una parola detta male, e poi riprendevamo senza avvertire il peso del lavoro… così fino alla fine del secondo anno.
Il padre di Muna si passò una mano sul mento:
— È chiaro che sei cresciuto all’insegna dell’amore e della disciplina insieme… e questo è raro.
Numan continuò, e nella voce si intravedeva un’ombra di orgoglio infantile:
— In terza elementare portai per la prima volta dalla biblioteca scolastica un libro illustrato… Lo lessi ad alta voce per mia madre, poi mi sedetti a spiegare ai miei fratelli ciò che avevo capito, mostrando loro le immagini colorate. Mia madre sorrideva e diceva:
«Leggi loro come se fossi il cantastorie del quartiere…»
Da quel giorno, diventai uno dei frequentatori più assidui della biblioteca scolastica. L’insegnante di arabo mi aiutava a scegliere le storie, mi indicava quali fossero adatte a me, e mi incoraggiava a tornare a casa con il libro, non solo con la cartella… Nella lettura scoprii qualcosa che somigliava a una patria, qualcosa che non spaventava.
A quel punto, Muna sollevò la mano delicatamente, come per fermare un’onda travolgente di immagini, e disse a bassa voce, con un filo di esitazione:
— Aspetta un attimo, Numan… puoi fermarti un po’? C’è una cosa che mi confonde…
Numan la guardò con un leggero stupore, mentre lei cercava le parole:
— Alcune delle cose che racconti… il tuo modo di descrivere gli eventi come se fossero normali, familiari… mi lascia perplessa. Sento che manca qualcosa nella storia, qualcosa che non viene detto apertamente.
Numan sorrise, un sorriso che sembrava una pacata scusa, poi rispose con tono sicuro e morbido:
— Capirai, Muna… tutto ciò che ora ti appare misterioso si chiarirà quando legherai gli eventi tra loro… È come leggere un romanzo di ampie sezioni; non puoi comprendere un capitolo da solo, devi cucire le righe con il filo silenzioso che le unisce.
Intervenne il padre di Muna, come se percepisse la profondità di quelle parole, sorridendo:
— Io… posso capirlo perfettamente.
Muna lo guardò con un’espressione maliziosa e poi, scuotendo leggermente il capo, disse:
— Dato che siete d’accordo, puoi continuare, Numan.
Numan inspirò profondamente, come se stesse immergendosi in un’altra memoria, e disse:
— Ricevetti il certificato di completamento della scuola elementare… Appariva come un semplice foglio, ma io lo vedevo come un ponte, o meglio, come due piccoli ali per un ragazzo che sognava di volare.
Appena passai alla scuola media, divenni uno dei frequentatori più assidui della biblioteca del centro culturale della città… Vi entravo come un assetato a una sorgente pura, attingendo dai libri ciò che volevo conoscere, imparare, o anche solo sfogliare. Seduto tra gli scaffali di legno, avevo la sensazione di stringere il mondo dalle estremità dei libri.
Eppure, non trascuravo mai lo studio… Seguivo le lezioni con attenzione e concentrazione, come se stessi correndo verso qualcosa che non vedevo, o come se dietro ogni domanda nel libro ci fosse una porta e io cercassi la chiave.
Il padre di Muna lo interruppe, con uno scintillio di ammirazione negli occhi:
— La biblioteca del centro culturale? Non credo che molti della tua età sapessero nemmeno dove si trovasse, figuriamoci frequentarla!
Numan annuì, con un filo di meraviglia nella voce:
— Sì… Non era conosciuta da molti ragazzi del paese, ma io la sentivo come una seconda casa… Poi arrivò la sorpresa, non dai libri questa volta, ma dalla casa stessa.
Muna si avvicinò con curiosità, come pronta a cogliere un segreto:
— Una sorpresa? Che cosa è successo?
Numan abbassò lo sguardo per un istante, richiamando alla mente quella scena lontana, e parlò con voce bassa:
— Dopo aver superato la sesta elementare, mio padre mi invitò a un incontro con mio nonno… Non era una cosa abituale, di solito non vengo chiamato a simili incontri. In quel momento non capivo cosa mi aspettasse, ma percepii dal tono di mio padre, e dal silenzio che regnava in casa, che ciò che sarebbe stato detto avrebbe cambiato qualcosa…
Seguì un breve silenzio, carico di un ascolto quasi rituale da parte di Muna e suo padre, come se stessero davanti a porte pronte ad aprirsi.
Non passò molto tempo prima che mio nonno iniziasse a parlare con la sua voce solenne, quella che talvolta porta saggezza e talvolta decisione: aggiustandosi il turbante sul capo, disse:
— Figlio mio, tuo padre è un uomo povero, non può sostenere i costi della scuola da solo. Ha altri figli, e deve provvedere a loro come ha fatto per te, nella misura del possibile.
Per anni mi hai aiutato nel negozio durante le vacanze estive, e io ho dato la tua paga a tuo padre affinché comprasse libri, quaderni e vestiti.
Per questo ho suggerito che lavorassi con me, imparando l’arte del barbiere. Ma tuo padre, figlio mio, non vuole che tu conosca le difficoltà di questo mestiere faticoso e poco redditizio. Perciò abbiamo pensato di parlarne con te, sperando di trovare un lavoro che possa sostenere te e la tua famiglia.
La conversazione non fu del tutto una sorpresa; mia madre l’aveva previsto e mi aveva consigliato di prepararmi a un momento simile. Mi rivolsi a loro con compostezza, allungando la schiena come se stessi presentando le mie argomentazioni davanti a una corte gentile:
— Posso proporre un’alternativa? Un’opzione che soddisfi me e tenga conto delle vostre esigenze?
Mio nonno mi scrutò con curiosità, poi si reclinò sorridendo:
— Sentiamo, ragazzo.
Parlai con fiducia, con una scintilla di speranza negli occhi:
— Ho un compagno di scuola, Salim, figlio dei nostri vicini. Mi ha invitato due giorni fa a lavorare con lui… Il lavoro è ben retribuito, copre le mie spese personali per un intero anno e le necessità scolastiche.
Mio padre, visibilmente entusiasta, si chinò leggermente e domandò ansioso:
— Che lavoro? Chi è questo tuo compagno?
Risposi con semplicità e chiarezza:
— È Salim, lo conoscete bene… Il lavoro è in un cantiere, come muratore di cemento.
La stanza cadde in un silenzio sospeso, poi mio padre aggrottò le sopracciglia e la sua voce si velò di preoccupazione:
— Muratore di cemento? Questo lavoro è duro, Numan… richiede forza fisica, resistenza al sole e alla fatica del ferro… No, non credo sia adatto a te!
Lo guardai con occhi pieni di fiducia e dissi con un filo di voce insistente, ma intriso di speranza:
— Lasciatemi provare. Se vedrò di non farcela, smetterò. Ma per ora, non vedo altro lavoro che possa garantirmi i mezzi per studiare, come questo.
Muna non disse nulla, ma il suo volto osservava con un misto di ammirazione e curiosità, poi si voltò verso suo padre come a chiedere con lo sguardo:
— Lo avresti fermato, se fosse stato tuo figlio?
Lui non rispose, ma mi lanciò uno sguardo profondo, come se vedesse in me un ragazzino che cerca di diventare uomo prima del tempo. Dopo un dialogo calmo tra noi, con cuori pieni di comprensione, arrivammo a un accordo silenzioso più che formale. Nessuna promessa grandiosa, solo sguardi che contenevano consenso e approvazione.
Con il primo chiarore del giorno successivo, iniziai il mio lavoro.
Era duro… sì, duro per il corpo di un ragazzo appena sopravvissuto all’infanzia. Ma per motivi che ancora oggi non comprendo del tutto, decisi di custodire quella durezza solo per me. Nessun lamento, nessun sospiro, nessun accenno. Tornavo ogni sera, lavando via polvere di ferro e sudore, poi annotavo il mio salario in un piccolo quaderno, sotto l’occhio vigile di mia madre.
Mia madre nascondeva il denaro in un angolo segreto della nostra unica stanza, quella che ci aveva dato mio nonno, come un piccolo lembo di speranza in mezzo alle ristrettezze della vita. Tra me e lei c’era un patto tacito: lei nasconde, io raccolgo… come se insieme tessessimo un mantello caldo da indossare nei primi giorni di scuola.
Numan fece una pausa, come se rivedesse una scena di un vecchio film, poi continuò con voce più dolce:
— Una sera guardai mia madre, segnata dalla fatica, e le dissi con delicatezza:
— Mamma, ti serve qualcosa? Ho già abbastanza per il prossimo anno scolastico, e posso rinunciare allo stipendio del prossimo mese per te.
Gli occhi di Muna si illuminarono di stupore sottile:
— E tu pensavi a queste cose a quell’età? È troppo per un ragazzino…
Suo padre annuì, sorridendo:
— In case come questa, i figli crescono in fretta, Muna… Il sogno non basta, ci vuole anche fatica che prepari la strada.
Numan continuò:
— Mia madre sorrise, un sorriso che sembrava pioggia che cade lentamente su un ramo assetato, poi tirò fuori i soldi e li contò davanti a me.
Io la osservavo: il totale era inferiore a quanto avevo segnato. Non dissi una parola, ma lei colse l’esitazione nei miei occhi e mi chiese con dolcezza, senza alcuna accusa:
— Hai preso qualcosa senza dirmelo?
Scossi la testa, negando con la mano:
— Non l’avrei mai fatto, e non so nemmeno dove li nascondi.
Il suo volto cambiò all’improvviso; immersa in un silenzio pesante, le lacrime iniziarono a scenderle, silenziose, come se cadessero dentro di me e non sul suo volto.
Mi avvicinai, asciugandole le lacrime con la mano tremante, e dissi con fervore:
— Ti prego, mamma, non caricare il tuo cuore più di quanto può sopportare! Tutto l’oro del mondo non vale una sola lacrima dei tuoi occhi!
Muna chinò il capo in silenzio, profondamente toccata dalle parole, e mormorò:
— Sostieni tutto questo da solo?
Numan continuò:
— Il giorno dopo terminai il lavoro presto e mi recai al mercato, alla ricerca di qualcosa che tranquillizzasse il cuore di mia madre e custodisse la nostra fatica.
Comprai una piccola cassetta di ferro, con una serratura robusta. Tornato a casa, e trovandola vuota, corsi nel giardino sul retro, presi una scala, uno strumento da scavo e un vaso.
Chiusi la porta alle mie spalle, appoggiai il mobiletto dei miei fratelli alla parete e posizionai la scala sotto l’apertura alta nel muro a sud, quella da cui i raggi del sole entravano come un filo d’oro sospeso nel cielo.
Salì, scavai una buca della dimensione della cassetta e vi sistemai i soldi, avvolti in tessuto e cuoio morbido, poi richiusi con cura la buca.
Rimisi tutto a posto, scesi piano, mi lavai, indossai il pigiama e mi sedetti a tavola, in attesa del ritorno di mia madre e dei miei fratelli.
Quando tornò, la guardai con occhi pieni di fiducia e gratitudine, le consegnai una chiave della cassetta e tenni l’altra per me.
Le dissi, come se le offrissero un dono prezioso:
— Così, se avrai bisogno di soldi in mia assenza, li troverai senza dover chiedere nulla a nessuno.
Mi guardò a lungo, poi sussurrò senza pronunciare una parola, solo un sospiro negli occhi: Dio ti benedica, figlio mio…
Proseguii i miei studi alle medie con una determinazione incrollabile, come se dentro di me ardesse un fuoco silenzioso che non si spegne mai. Superai settima e ottava senza perdere un briciolo del mio entusiasmo, equilibrando quaderni scolastici, libri di lettura e il lavoro estivo che era diventato per me un ponte verso una piccola indipendenza.
Quel lavoro estivo, pur nella sua durezza, era linfa nelle mie vene, mi aiutava a inseguire il mio sogno e mi dava un senso di dignità. Non tendevo la mano a nessuno, tendevo il cuore verso ciò che amavo.
Quando arrivò l’estate della terza media, quella in cui mi preparavo all’esame di licenza, sentii un’emozione nuova… qualcosa che somigliava a una maturità precoce, o forse il desiderio di dimostrarmi che potevo scegliere da solo.
Allora, io e un compagno della bottega decidemmo di smettere di lavorare come operai al servizio di altri, e di prendere in carico lavori in autonomia. Stipulammo un piccolo accordo orale: dividere a metà ciò che guadagnavamo. Il lavoro per noi, la provvidenza per Dio.
Muna, con uno scintillio di ammirazione negli occhi, disse:
— E ti sei fidato di lui? Non sempre le collaborazioni vanno bene!
Numan sorrise, annuendo:
— Tra noi c’era solo parola data… e quella, Muna, valeva più di qualsiasi contratto.
Continuò:
— Passarono tre estati lavorando così. Faticavamo, ci stancavamo, ma dividevamo la fatica come dividevamo il sogno… un sogno simile a un pezzo di pane caldo, da mordere insieme senza che uno dei due sentisse fame da solo.
Dopo l’esame di maturità, sentii che dovevo fermarmi. Non solo la fatica fisica, anche la mente chiedeva una piccola tregua.
Decisi allora di prepararmi alla fase successiva: l’università. Smisi il lavoro da fabbro, quello che colorava le mie giornate di fuoco e sole, lasciando sulle mie mani un’impronta indelebile.
Per fortuna avevo risparmiato abbastanza. Preparai il materiale in silenzio, come le radici scavano la terra prima che nasca l’albero. Comprai libri universitari e tutto ciò che mi sarebbe servito per gli anni a venire, senza dover affrontare di nuovo le fatiche dei lavori estivi.
Il signor Ahmed lo interruppe con un curioso stupore:
— Aspetta un momento… hai detto che tuo padre era molto povero, giusto? Eppure so che tuo nonno, il padre di tuo padre, era molto ricco… e vivevate insieme nella stessa casa? La casa di tuo nonno? Come mai allora non poteva permettersi di sostenerti, o almeno di pagare i tuoi studi?
Numan sorrise, un sorriso che sembrava venire da un angolo lontano del cuore, e rispose:
— Bella domanda, zio Ahmed… ma la verità raramente si racconta in una sola riga. Sì, mio nonno era ricco, e la casa era sua. Noi vivevamo in un piccolo appartamento al suo interno. Ma mio padre… mio padre era un uomo diverso. Non amava gravare su nessuno, nemmeno sul padre. E forse — e l’ho compreso più tardi — tra loro non c’era piena armonia. Mio padre scelse di essere povero e onesto piuttosto che ricco e umiliato… e io rispettai quella scelta, anche quando mi ferì.
Seguì un breve silenzio, come se le parole stesse tremassero di fronte al loro significato. Poi Muna, con voce sommessa, disse:
— Credo di capire meglio… il sogno, quando viene raccontato così, non è più solo un’idea. Diventa qualcuno che amiamo.
Numan fissò il vuoto, come se stesse richiamando alla memoria un ricordo vivido:
— Sì… avete ragione. Ma lasciate che vi racconti un’altra storia… una storia che inizia quasi al confine della coscienza, quando la vita cominciava ad aprire gli occhi dentro di me.
Si appoggiò allo schienale della sedia, e continuò con un tono più narrativo che discorsivo:
— Era un pomeriggio afoso di un’estate lontana… mia madre mi portò in bagno e mi lavò con delicatezza, gocce di affetto che cadevano come rugiada. Strofinava la mia pelle con acqua e sapone, e la schiuma bianca, quando scivolò sul mio viso, entrò nei miei occhi… e urlai forte, piangendo per il bruciore.
Mia madre accorse subito, mi asciugò il viso con le mani tremanti per la premura e mi baciò come volesse spegnere quel dolore con le sue labbra.
Muna, con lo sguardo illuminato, esclamò:
— Dio mio… nulla è come il tocco di una madre quando il dolore è negli occhi!
Numan sorrise, e proseguì:
— Dopo il bagno, mi vestì con abiti estivi scelti con cura, come se mi dipingesse con pennellate delicate. Pantaloni corti, colorati come i fiori di un piccolo albero vicino alla porta della cucina, con due sottili passanti e una cintura dello stesso colore delle foglie. La camicia decorata con bottoni estivi, alcuni nascosti sotto una larghezza chiara, come se mia madre avesse posto un fiore sulla finestra della sala da pranzo.
Il padre di Muna rise brevemente:
— Giuro che la vedo davanti a me! Tua madre era una pittrice… dei tessuti!
Numan annuì:
— No, era una pittrice dell’amore. Persino le scarpe… leggere, con i lacci corti e due fiocchi sui lati, completavano un insieme che non somigliava solo ai bambini, ma al sorriso del mattino.
Respirò lentamente, tornando alla storia:
— Versò alcune gocce di un profumo leggero sulle sue mani e lo passò sui miei capelli e vestiti. Starnutii più volte, e lei rise, asciugandomi il viso con un panno morbido che aveva preparato in anticipo.
Muna, con un sorriso leggero, commentò:
— È chiaro… eri un bambino viziato, Numan!
Numan sorrise a sua volta:
— Nel grembo di mia madre, il mondo intero si prendeva cura di me.
Continuò:
— Poi mi portò davanti alla porta esterna, e disse con voce colma di tenerezza:
“— Siediti qui e aspetta un momento… arriverà chi tuo padre ha mandato a prenderti.”
Mi sedetti su una piccola sedia di legno, posizionata con cura da mia madre davanti alla porta, mentre mi osservava attraverso essa con occhi pieni di attesa… occhi che restano nella memoria come se non si fossero mai chiusi.
Non passarono molti minuti, e davanti a me si fermò la “lunga” auto di mio padre, che mi appariva come una nave fantastica. Il conducente scese con leggerezza e sorridendo disse:
— La mia insegnante… Numan è affidabile.
Poi mi sollevò tra le braccia e mi mise su un seggiolino speciale preparato da mio padre all’interno dell’auto, come sapesse che sarei caduto in sonno dopo pochi istanti.
Il padre di Muna disse:
— È chiaro che tuo padre ti preparava ogni cosa, persino nei dettagli delle automobili!
Numan rise:
— Mi considerava l’unico punto di luce in mezzo a una giornata lunga… L’auto scivolava sulla strada con leggerezza, e io presto mi lasciai cullare dal sonno. Quando mi svegliai, mi ritrovai tra le braccia di mio padre, che mi accarezzava il viso con una mano leggermente bagnata, come se io fossi il suo piccolo tesoro.
Il negozio di mio padre si trovava nel cuore della città, in via Al-Jalaa, di fronte alla grande moschea. Un locale ampio, pieno di vita e movimento. Vidi operai intenti a scaricare grandi casse di legno da un furgone lungo, sistemandole con cura lungo il muro a destra.
All’interno… file di macchine da cucire e ricamo di varie dimensioni, tutte con lo stesso nome inciso con orgoglio, come se proclamassero: «Questo posto è nostro… e questo ragazzo diventerà qualcuno un giorno».
Numan, con voce velata da un entusiasmo nascosto, continuò:
— Ricordo perfettamente quel momento… mio padre mi fece sedere su una piccola sedia di legno, poi mi sollevò sopra il grande banco del suo ufficio. La sedia tremava sotto il mio corpo esile, come se non sapesse ancora come reggermi.
Muna sorrise, inclinando il corpo verso di lui, come se volesse ricreare nella mente la scena:
— Ti ha fatto sedere sulla scrivania? Sembrava voler fare di te un piccolo socio fin dall’inizio.
Numan annuì:
— Forse mi vedeva come un’estensione del suo sogno. Davanti a me c’era un telefono nero, con la rotella, che allora mi sembrava un oggetto magico che emetteva strani ronzìi. Accanto, un’imponente cassaforte di ferro, quasi irreale… sembrava un forziere di segreti che si apriva solo con lo sguardo di mio padre.
Il padre di Muna annuì, riflettendo:
— Nei grandi forzieri, a volte abitano i piccoli sogni.
Numan continuò, fissando un punto sul muro come per rileggere il tempo sul suo volto:
— A sinistra del banco c’era un altro scrittoio più piccolo, coperto di fogli sparsi e vecchi quaderni. Dietro sedeva un uomo della stessa età di mio padre, immerso a scrivere numeri su pagine consumate, sfogliandole con cura come per riorganizzare la memoria.
— Tra i due banchi, un corridoio stretto permetteva di muoversi senza rumore. L’auto di mio padre era parcheggiata sul marciapiede vicino, solida, maestosa, come se anche lei lo osservasse.
Muna sussurrò:
— Sembrava che tutto nel negozio ti aspettasse, persino le cose inanimate…
Numan sorrise, con tono calmo:
— Lo osservavo muoversi leggero tra discorsi con gli operai, gesti rapidi con l’uomo vicino a lui, telefonate al telefono a rotella. Lo seguivo con gli occhi, cercando di attirare la sua attenzione verso l’auto… ma era troppo impegnato, e ben presto mi addormentai di nuovo.
— Al risveglio, mi ritrovai tra le braccia di mia madre, che mi accompagnò attraverso un corridoio buio verso il mio letto, in una stanza silenziosa, permeata del profumo rassicurante della sua presenza.
Seguì un momento di silenzio tra i tre, prima che il padre di Muna commentasse:
— È bello come i piccoli momenti di assenza possano diventare l’accesso a ricordi indimenticabili.
Numan annuì:
— E un giorno, un giovane semplice mi prese tra le braccia e mi fece attraversare strette stradine, pronunciando parole mai sentite prima, alcune come un adhan, altre come un canto popolare sconosciuto.
Muna rise:
— È stato il tuo primo incontro con i vicoli?
Rispose lei:
— Il primo incontro con l’infanzia… quando vieni proiettato in un mondo che non conosci ancora.
Numan si voltò verso di lei:
— Arrivammo in un piccolo negozio. Mio padre stava in piedi accanto a una sedia alta, su cui era seduto un uomo davanti a uno specchio grande. Nella mano di mio padre c’erano forbici e pettine, mentre altri uomini erano seduti su sedie di legno, in attesa del loro turno.
Il padre di Muna, sorpreso, chiese:
— Tuo padre era un barbiere o un commerciante?
Numan scosse la testa, sorridendo:
— Era tutto insieme. Commerciante, barbiere, artigiano… semplicemente per evitare che io dovessi dipendere da qualcuno quando sarei cresciuto.
— Il giovane mi mise su una piccola sedia accanto a un tavolo modesto, su cui c’era un vecchio telefono a rotella. Accanto, un bricco di kerosene, due teiere e un vassoio pieno di bicchieri di vetro.
— Le conversazioni riempivano l’ambiente, interrotte da risate soffuse e da un silenzio denso, come se tutti custodissero segreti sotto le proprie camicie.
— Quando mio padre terminava di tagliare i capelli a un cliente, il giovane si affrettava verso di lui, agitava un piccolo pennello e diceva con la voce che il negozio conosceva bene: «Benissimo, signore!» Poi cominciava a spazzare i capelli tagliati dal pavimento.
— Il cliente, indossata la giacca, allungava la mano verso la tasca, ne estraeva una piccola moneta, la porgeva a mio padre e poi un’altra al giovane aiutante.
Muna chiese, con voce emozionata:
— Ti sentivi orgoglioso? O ti sembrava strano?
Numan, con tono basso e intimo, rispose:
— Sentivo di appartenere… a quel negozio, a quelle forbici, a quell’uomo che stava costruendo per me una piccola gloria, senza chiedermi se capissi.
La stanza restò silenziosa per un istante, come se si stesse preparando a un passaggio verso un’altra fase. Le parole di Numan portavano con sé una polvere sottile, quella che non si dissolve facilmente, ma lascia un’impronta nell’anima che non svanisce.
Il padre di Muna lo guardò, con gli occhi che scintillavano di un bagliore misterioso, come se un’idea stesse prendendo forma nella sua mente.
— Numan… ricordi il nome di quell’uomo seduto dietro l’altro banco? Quello di cui parlavi, che ordinava e classificava le carte?
Numan esitò un attimo, poi disse:
— Sì, lo conosco bene! È (—–). All’epoca non sapevo chi fosse, ma parlava spesso con mio padre dei conti.
Le labbra del padre si socchiusero come chi trova l’ultimo pezzo di un puzzle sparso, e lentamente rivolgendosi a sua figlia disse:
— Lo sospettavo… tutto coincide. Il nome, il ruolo, persino il modo in cui spariva ogni tanto.
Muna sbatté le palpebre, sorpresa:
— Cosa intendi dire, papà?
Si sistemò sulla sedia, appoggiando la mano sul bordo del tavolo davanti a sé, come per prepararsi a rivelare un segreto custodito a lungo nel profondo del petto.
— Voglio dire… il padre di Numan non era affatto un barbiere. Era uno dei grandi commercianti della città anni fa… Il suo negozio in via Al-Jalaa, a Douma, era famoso per gli articoli per la casa. Aveva rapporti con una società per cui lavoravo da giovane a Beirut. Sì, lo ricordo bene… Gli fornivo i camion per trasportare le merci da Beirut alla Siria.
Si rivolse a Numan con voce più bassa:
— E il contabile di cui parlavi… (—–) era uno dei più noti a essere coinvolto in furti e truffe. L’uomo scomparve improvvisamente dal Paese alla fine degli anni Cinquanta, portando con sé interi conti che né il tribunale né le autorità riuscirono a rintracciare.
Muna sussultò:
— Giuri che fosse lui?!
Il padre annuì con decisione:
— Senza ombra di dubbio. Quello che ho ascoltato da Numan, nelle nostre ultime conversazioni, mi ha permesso di collegare i fatti. Ho ascoltato senza interrompere, trattenendo ogni dettaglio, finché l’immagine completa è emersa oggi.
Guardò Numan con occhi pieni di rispetto e insieme di rammarico:
— Tuo padre, figliolo, non è caduto perché ha fallito, ma perché è stato pugnalato da chi più si fidava. Senza il tradimento di quel contabile, sarebbe rimasto a capo della sua impresa. Ma in un attimo ha perso tutto: capitale, fiducia, conti… da creditore è diventato debitore.
Fece una pausa, poi aggiunse con voce più profonda:
— E quando le banche lo inseguivano, non fuggì… scelse di restare e di pagare ogni debito, un centesimo alla volta. E ha comprato la sua dignità con un piccolo pettine e delle forbici da barbiere.
Numan chinò la testa, e gli occhi gli si riempirono di una lacrima calda, senza sapere se fosse di orgoglio o di dolore.
Muna, con voce dolce e tremante, sussurrò:
— Papà… perché non ce l’hai mai detto prima?
Il padre sorrise con un velo di malinconia:
— Perché non ne ero sicuro. Ma ora lo so. So che siamo seduti davanti a un uomo che ha costruito con le proprie mani una scala per sollevarsi sopra le ferite. Non ha pianto, non si è lamentato… ha scelto di ricominciare, in silenzio, come fanno i grandi quando si spezzano senza arrendersi.
Allungò la mano e la posò sulla spalla di Numan con una carezza profonda:
— Ti ha nascosto molte cose, figlio mio, non per paura, ma per non farti portare un peso che non eri pronto a sostenere.
Le labbra di Numan tremarono. Non disse nulla… il silenzio parlava più di qualsiasi parola.
Muna guardò suo padre e poi Numan con uno sguardo nuovo, pieno di stupore, di rispetto… e di qualcosa di indefinibile, ma chiaro nei suoi occhi.
Volle ridare vita alla conversazione e sorrise a Numan con dolcezza:
— Continua, Numan… forse parlare allevierà il peso della sorpresa.
Numan inspirò lentamente, come se stesse richiamando un ricordo lontano e prezioso, poi parlò con voce come se stesse ascoltando sé stesso:
— In un’altra estate, cominciai a uscire di nascosto dalla porta di casa, cercando il momento in cui qualcuno mi avrebbe preso per mano e condotto da mio padre.
— E quando l’attesa si prolungava e nessuno arrivava… mi muovevo da solo, passo dopo passo, esitante, come se camminassi in un sogno smarrito.
Numan chinò la testa per un momento, poi continuò, con gli occhi che brillavano:
— Sotto il peso del sole cocente, mi appoggiavo a una grande pietra davanti alla porta di una parente di mia madre. La pietra non era strana, né la porta. Ci ero già stato una volta, in una breve visita di cui ricordavo solo il suo volto mentre faceva ridere le donne del portico.
La stanchezza mi sopraffece, e mi addormentai sulla pietra senza sapere quanto tempo fosse passato… finché una mano calda mi svegliò delicatamente. Era la stessa donna: mi prese tra le braccia e mi fece entrare in casa, stendendomi un divano all’ombra di un imponente albero di fico, i cui rami si estendevano nel cortile.
Muna, con voce carica di una tenerezza evidente, disse:
— Eravate poveri, allora… ma descrivi la povertà come se fosse un sogno bello.
Numan sorrise debolmente, poi replicò:
— Non lo sapevo! Il significato della povertà… o se fossimo davvero poveri? Ma non eravamo sconfitti.
Il padre di Muna guardò sua figlia con ammirazione silenziosa, come se leggesse nelle parole di Numan qualcosa che andava oltre la storia stessa.
Numan proseguì:
— Dormivo lì per ore, poi aprivo gli occhi come se non avessi mai lasciato casa nostra. Tutto era familiare, tranne che mio padre non c’era…
— E in un freddo pomeriggio di fine autunno, dopo quell’estate, avevo appena compiuto quattro anni. Arrivò un grande camion che trasportava il mio letto, i mobili di casa, persino le pentole non furono lasciate indietro.
Mio padre sedeva accanto all’autista, stringendo mia madre, mia sorella piccola e mio fratello neonato, i cui occhi si erano appena aperti. Mi invitò a sedermi davanti, ma insistetti per restare sul sedile posteriore, accanto al mio letto.
Il padre di Muna aggrottò leggermente le sopracciglia e chiese:
— Rifiutavi di stare vicino a loro?
Numan scosse la testa:
— Volevo solo restare dove mi sentivo… tra le mie piccole cose, in un mondo che conoscevo.
Poi aggiunse con voce bassa:
— Mio padre mi avvolse in una coperta spessa, temendo il freddo della notte. Appoggiai la testa sul mio piccolo cuscino e mi addormentai cullato dal lieve tremito della macchina.
Quando mi svegliai alle prime luci dell’alba, ci trovammo tutti addormentati in una stanza nuova, estranea ai miei occhi e alla mia anima. Esitai a lasciare il letto, credendo di sognare. Allungai la mano verso mia sorella e la svegliai sussurrando:
— Dove siamo?
Sbadigliando rispose:
— No… non adesso…
E si riaddormentò.
Mi rassicurai, vedendo che tutti erano lì… e restai sotto la coperta, osservando mia madre mentre si alzava e iniziava a sistemare i mobili sparsi in disordine.
La chiamai dolcemente:
— Mamma, posso aiutarti in qualcosa?
Si voltò verso di me, espirando un lungo sospiro, e disse:
— Non potrai fare nulla finché non sarà pronto il nostro nuovo casa!
Guardai intorno, confuso:
— Vuoi dire che questa casa fatiscente… sarà la nostra!?
Lei sorrise debolmente, poi rispose con fermezza:
— No, sarà la nostra nuova casa… quindi non parlare troppo e torna a dormire!
Seguì un breve silenzio, come se le stesse pareti stessero ascoltando.
Muna parlò a bassa voce, rivolta a suo padre:
— Immagina, papà… iniziare il proprio viaggio da sopra una pietra, e svegliarsi all’improvviso in una casa che non conosce.
Lui sussurrò, quasi parlando a se stesso:
— Non sono le case a perdersi, figlia mia… ma la certezza dell’uomo del suo posto nel mondo.

Sulle soglie del sogno 06

Comments

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *