Parte Settima 07
Capitolo Ventotto 28:
In una tranquilla sera invernale, il piccolo tavolo ospitava i tre protagonisti, illuminato dalla luce soffusa di una lampada e dall’aroma di lenticchie cotte, come facevano le nonne con nostalgia. Il calore della casa non derivava solo dal fuoco del camino, ma dalle anime abituate alla compagnia, dalle conversazioni piene di senso che illuminavano gli angoli dei cuori.
Il signor Ahmad sedeva a capo tavola, Muna alla sua destra, Numan di fronte, e tra loro un primo silenzio, come a lasciare spazio alla nascita di qualcosa di profondo.
Il signor Ahmad porse un pezzo di pane, guardò Muna con lo sguardo del padre che comprende, poi si rivolse a Numan con tono cordiale:
«Numan, Muna mi ha detto che parlate spesso di letteratura russa… ma dimmi, hai letto anche altri autori? O sono stati i russi a incantarti con le loro storie?»
Numan sorrise, con negli occhi la luce di chi si aspettava la domanda, e alzò il capo rispondendo con voce velata di un’innocente nostalgia:
«Sì, leggo molti altri. Ma la letteratura inglese occupa un posto speciale nel mio cuore. Ricordo bene la prima volta che lessi un verso di Shakespeare: mi sembrava di trovare uno specchio antico, che non solo riflette il volto, ma rivela ciò che si cela dietro.»
Muna intervenne delicatamente, come a completare una riga mancante:
«Shakespeare non scrive solo le parole, scrive l’eco dell’uomo in esse… come se mettesse la vita sul palco, con tutto il suo assurdo e la sua profondità.»
Numan annuì, aggiungendo:
«E dall’Inghilterra ci sono molti altri che hanno lasciato un segno nel mio cuore: Shakespeare, George Orwell, Dickens, Jane Austen, Virginia Woolf, William Blake, Tolkien e Agatha Christie.»
Continuò con un entusiasmo equilibrato, mescolando informazione e passione, realtà e sogno, tracciando i tratti di ogni autore, i loro temi e la loro profonda visione dell’uomo e della società.
Il signor Ahmad sollevò le sopracciglia, ammirato:
«Che varietà interessante. Orwell, per esempio… ho letto 1984, fu uno shock intellettuale.»
Muna sorrise:
«Orwell ci spaventa perché è sincero. Ti mostra come lo spirito umano possa essere schiacciato quando la verità diventa un crimine.»
Numan aggiunse con tono contemplativo:
«Anche i tedeschi hanno la loro profonda impronta. La letteratura tedesca non è meno intensa di quella russa, ma è più misurata nel dolore e più legata al pensiero filosofico.»
Il signor Ahmad, sempre più interessato, chiese:
«E tu conosci gli autori tedeschi? Chi consideri il più importante?»
Numan, sorseggiando un po’ d’acqua, rispose:
«In testa c’è Goethe, gigante del classicismo tedesco. Faust non è solo un dramma, ma il conflitto dell’uomo con se stesso e con i fantasmi delle sue ambizioni. I dolori del giovane Werther, fonte di un romanticismo travolgente, e West-östlicher Divan, incontro tra culture in linguaggio poetico. Poi Schiller, con le sue congiure e redenzioni, Maria Stuarda, e l’inno alla gioia che Beethoven musicò.»
Proseguì:
«Nel Novecento emergono Thomas Mann, premio Nobel, con I Buddenbrook, La morte a Venezia, La montagna incantata. E Kafka, pur essendo di Praga, è considerato una colonna della letteratura tedesca, con opere come La metamorfosi, Il processo, e Il castello.»
Gli occhi di Muna si illuminarono:
«Kafka assomiglia ai russi in qualcosa, ma è più solitario. I suoi personaggi non resistono, si dissolvono lentamente dentro una burocrazia governata dall’assurdo dell’esistenza.»
Numan continuò:
«E non dimentichiamo Bertolt Brecht, pioniere del teatro epico, con opere come Madre Coraggio e Vita di Galileo. Poi Heine, il poeta politico, con la sua calma e ironia, e Hermann Hesse, autore di Siddharta, Il lupo della steppa e Il gioco delle perle di vetro. Infine Remarque… Remarque è diverso.»
Il signor Ahmad, con genuino interesse negli occhi, chiese:
«Remarque? Ho sentito il suo nome, ma non ho letto nulla. Cosa rende le sue opere speciali?»
Numan rispose con tono reverente:
«Non scrive della guerra, ma dell’uomo che vi si perde. Tutto sembra calmo sul fronte occidentale non come narrazione di battaglie, ma come elegia per lo spirito, come se dicesse: quando il sogno muore, non resta nulla. Per lui la guerra non è eroismo, ma negazione dell’eroismo, distruzione dell’immagine tradizionale del combattente.»
Muna completò il pensiero:
«E ciò che lo distingue dalla letteratura russa è la condensazione della scena. I russi scavano nell’animo per pagine intere, Remarque esprime un dolore insopportabile in una sola frase.»
Il signor Ahmad osservò la tazza in mano, poi disse con calma:
«È meraviglioso ascoltarvi. Forse a mancare nelle nostre scuole non sono i testi, ma le anime che li animano. La letteratura, se insegnata come dovere morto, perde la sua scintilla.»
Numan, con voce che tradiva un pensiero che lo accompagnava da tempo, aggiunse:
«La vera letteratura non ci insegna a sopravvivere, ma a capire le nostre perdite. A diventare persone, nonostante tutto ciò che ci schiaccia.»
Muna guardò il padre:
«La letteratura non si insegna, si vive. E forse per questo il lettore appare – tra i coetanei – estraneo. Perché è preso dalle sue domande, non da risposte pronte.»
Seguì un silenzio, non vuoto, ma maturato nelle parole. Poi il signor Ahmad respirò profondamente e disse:
«Che bello dialogare con giovani che non leggono solo i libri, ma ascoltano l’eco dell’uomo in essi.»
Numan chinò leggermente il capo, e Muna sorrise; un nuovo calore si insinuò negli angoli, come se i libri menzionati avessero aperto le loro finestre, lasciando filtrare una luce invisibile.
Muna inspirò profondamente, dopo aver sorseggiato un po’ dalla tazza che Numan cercava di non lasciare vuota, poi aggiunse:
«Papà… credo che il problema non sia l’assenza della letteratura, ma la mancanza della sua influenza. La gente fugge dalle domande profonde, perché rispondere significa confrontarsi con se stessi. Ecco perché la letteratura diventa un lusso, non una necessità. Anche i ragazzi che leggono spesso vengono considerati strani, fuori contesto!»
Numan rise, scherzando:
«Lo so bene… nella mia città si diceva che leggere fosse un mestiere per disoccupati, e chi teneva un libro in mano non capiva né di agricoltura, né di commercio, né di matrimonio!»
Il signor Ahmad sorrise con saggezza e calore:
«Eppure, da questi “disoccupati” nascono le rinascite. La vera povertà non è nel portafoglio, ma nell’immaginazione. Le società che temono il lettore temono di vedersi riflesse nel suo specchio.»
Il silenzio tornò, ma stavolta era denso, come se il tavolo stesso avesse ascoltato e imparato.
I tre si scambiarono sguardi sinceri e, nell’orizzonte interiore di ciascuno, qualcosa di nuovo stava prendendo forma… qualcosa che somigliava alla coscienza e al sogno.
Il signor Ahmad rise, scuotendo la testa:
«Incredibile… mi sa che mi servirà un quaderno per annotare i vostri consigli, non una sola domanda!»
Muna rise a sua volta, il volto illuminato da un sollievo gentile, come se vedesse riflesso il suo pensiero nelle parole di Numan, e sussurrò:
«Sapevo che l’avresti reso felice.»
Dopo che la cena si concluse con la quiete dei racconti lunghi, si trasferirono sul terrazzo sul retro della casa. La notte era mite, l’aria soffiava leggera, come a sussurrare segreti mai rivelati dal giorno.
Si sedettero attorno a un piccolo tavolo di bambù, al centro un bricco di caffè in rame e tre tazze che quasi vaporizzavano la stanchezza residua dalle anime.
Il signor Ahmad accese una piccola lampada nell’angolo, sospirando profondamente, mescolando soddisfazione e nostalgia, poi disse versando il caffè per tutti:
«È così che mi sento tranquillo… quando la conversazione calda si mescola al profumo del caffè, lontano dal rumore del mondo.»
Numan prese la sua tazza, ringraziando il signor Ahmad con voce bassa, e rimase a osservare la superficie del caffè come se cercasse di leggerci qualcosa. Dentro di lui era agitato, come se la cena avesse risvegliato un senso di contraddizione. Aveva letto tanto… ma ciò che vedeva negli occhi del signor Ahmad non si trovava nei libri. Vedeva in quest’uomo i resti di una generazione che credeva che il pensiero non si separasse dalla pratica, e che la famiglia non fosse solo un legame di sangue, ma un progetto di senso.
Numan chiese all’improvviso, come se lanciasse una domanda nascosta nel cuore da giorni:
«Zio Ahmad… hai mai sentito che ciò che hai letto non ti ha salvato?»
Il signor Ahmad vagò con lo sguardo tra lui e Muna, poi sorseggiò il caffè e rispose lentamente:
«Sì… molte volte. I libri non salvano, ragazzo mio. Ma maturano il tuo dolore. Ti insegnano a sopportare il mondo, non a cambiarlo all’istante. La letteratura è come un paio di occhiali che ti mostrano l’ampiezza della ferita, non un balsamo che la nasconde.»
Tacque un momento, poi aggiunse con tono che riportava a tempi lontani:
«Quando mio padre morì, lessi tutto ciò che Ansi al-Hajj scrisse sulla perdita, eppure potevo solo piangere all’ombra, sfogliando la sua vecchia fotografia.»
Capitolo Ventinove 29:
Muna guardò suo padre con uno sguardo carico di affetto, come a porgergli una coperta di serenità non pronunciabile. I suoi occhi dicevano più di quanto le labbra potessero.
Le parole, in quel momento, erano pesanti sulla punta della lingua, come se temessero di turbare il calore della scena. Dentro di lei, correnti intrecciate di emozioni lottavano per emergere: un amore profondo per suo padre, una rinnovata ammirazione per Numan, e un dolore di cui non sapeva se fosse ereditato dalla voce della madre o tessuto da sola nelle prime notti del lutto.
Alla fine Muna parlò a bassa voce, come una luce di luna timida che teme di svegliare i dormienti:
«A volte… penso che amiamo i libri perché dicono ciò che non riusciamo a dire alle persone. Li leggiamo come se inviassimo lettere a noi stessi… ma attraverso gli altri.»
Numan la guardò a lungo, con uno sguardo che celava lo stupore per la sua capacità di cogliere il senso con una semplicità così profonda. Voleva dirle qualcosa che lo tormentava da giorni: che lei, proprio lei, era diventata da tempo il suo libro preferito… ma scelse il silenzio. Sapeva che certi momenti sono più belli quando restano senza parole.
Si rivolse quindi al signor Ahmad, come a tornare in un angolo sicuro, e disse:
«Sai, zio, quando lessi due romanzi di Orwell, La fattoria degli animali e 1984, sentii di vivere un altro tipo di sorveglianza. Non è solo lo Stato a controllarci, siamo noi stessi a sorvegliare i nostri pensieri, a nascondere ciò che pensiamo, a temere di essere diversi.»
Il signor Ahmad chinò il capo, poi lo scosse lentamente, con un tono più triste che rimproverante:
«Questa sorveglianza è ciò che mi preoccupa per la vostra generazione… che un giovane come te cresca temendo di dire ciò in cui crede, o sia costretto a rinunciare ai suoi sogni, perché la società non ama chi sogna.»
Seguì un silenzio leggero, non desolato, ma trasparente come una goccia d’acqua sospesa tra luce e memoria. Tuttavia, per Numan non lo era. Le parole del signor Ahmad avevano aperto una porta di ricordi che lui aveva tenuto chiusa a lungo.
Qualcosa tremò dentro di lui, invisibile agli occhi di Muna, ma suo padre percepì l’ombra sul suo volto e domandò con premura e tono serio:
«Che succede, Numan?»
Numan rispose come se stesse tirando la voce da un pozzo antico:
«È una delle conseguenze di quegli accumuli… accumuli di consapevolezza precoce, e di quella audacia nel parlare che il tempo non era pronto a sopportare.»
Muna inclinò leggermente la testa, con voce dolce e sincera:
«E possiamo… conoscere i dettagli di quel ricordo? Con precisione e profondità, come si deve?»
Numan la guardò, poi il padre, trovando nei loro occhi una sincerità irresistibile. Ma qualcosa dentro di lui si rifiutava, come se la ferita fosse ancora fresca.
Il silenzio si allungò, e Numan pensò che non avrebbe parlato. Poi, infine, disse:
«Preferisco non addentrarmi in quel ricordo doloroso… che mi perseguita ancora oggi, e non so quando finirà.»
Non proseguì, ma dentro di sé vedeva chiaramente la scena: quel giorno d’autunno lontano, quando stava nella piazza della scuola e si rivolse all’organizzatore della cerimonia — un alto funzionario del Partito Baath Arabo Socialista, il partito che guidava lo Stato e la società in Siria e ne pianificava le strategie interne, regionali e internazionali — con voce che non avrebbe mai dimenticato:
«Per favore, stimato professore… vorrei un chiarimento su una questione che mi tormenta!»
L’uomo quel giorno rispose cortesemente:
«Prego, fai la tua domanda, e ti ringrazio in anticipo per l’interesse e la partecipazione.»
Ma la domanda, che non aveva superato i confini del pensiero, era stata sufficiente a scaraventarlo in prigione, lasciando dentro di lui un vincolo di paura che ancora ronzava nelle sue notti, nonostante tutte le libertà apparenti.
I tre non ebbero bisogno di altre parole. Il terrazzo rimase silenzioso, ma comprensivo. La notte carezzò la ferita e lasciò una sedia vuota accanto a loro… come se l’ora della speranza dovesse ancora arrivare.
A mezzanotte, quando i rumori dietro le finestre si attenuarono e il calore del terrazzo si ritirò nelle stanze, Numan rimase solo nell’oscurità, come se la veglia gli fosse stata prestata dal sonno per un pensiero incompiuto.
Seduto sul bordo del letto, evitava di accendere la luce. La sufficienza del lampione che filtrava tra le tende bastava a delineare il suo volto, un’ombra che rifletteva i pensieri. Appoggiò la mano sulla fronte e chiuse gli occhi, come se tentasse di spegnere dentro di sé qualcosa che non si era mai spento.
Perché quel giorno era tornato?
Perché gli anni non erano riusciti a cancellare quella sensazione?
E come può un ricordo rimanere vivo ogni volta che qualcuno nomina un sogno?
Non era solo la tristezza a tormentarlo, ma quella meraviglia antica di fronte a un’ingiustizia che ancora non comprendeva, pur avendola vissuta.
In prigione non era stato solo picchiato, ma la sua innocenza stessa era stata messa in discussione, come se la domanda fosse un crimine, non semplice curiosità.
Alzò la testa e mormorò a bassa voce:
«Era una domanda innocente… niente di più.»
Poi sorrise amaro, parlando come a rispondere a se stesso:
«Ma l’innocenza, Numan, non è sempre una virtù.»
Rimembrò il volto di sua madre il giorno in cui uscì dal carcere, come nascondeva le lacrime dietro un sorriso tremante, mentre la sua manina afferrava l’orlo del suo vestito, spaventata dalla luce del giorno.
Non temeva il mondo… temeva che nessuno lo comprendesse.
Si alzò dal letto e si avvicinò alla finestra.
Aprì il vetro silenziosamente e inspirò l’aria notturna, come chi compie una fredda riconciliazione con la vita.
Chissà… se glielo avessi detto stanotte, avrebbe capito?
E se suo padre mi avesse interrogato ancora, avrei avuto il coraggio?
E se lo scrivessi in un romanzo… guarirei?
Girava le domande nella mente, come cercando una frase capace di salvarlo dal peso del passato.
Ma nulla era sufficiente.
Poi, improvvisamente, gli venne un pensiero: prese un vecchio quaderno dalla borsa, quello che conservava da anni.
Aprì una pagina bianca e scrisse:
«La libertà non è uno slogan… è un esame quotidiano. E io, da bambino, l’ho fallito molte volte… perché credevo che il sogno da solo bastasse.»
Si fermò, fissò a lungo la riga, poi chiuse il quaderno.
Non voleva continuare a scrivere, voleva solo dirsi che era ancora capace di sentire.
E così finì la sua notte, non con una decisione né con una promessa, ma con un nuovo silenzio, meno doloroso del precedente, perché non era il silenzio della paura, ma quello di chi comprende che alcune ferite non si curano con le parole… ma con la vita.
Il mattino sorse sulla città con una dolcezza grigia, come se la notte stesse ancora trattenendo l’orlo del suo mantello, senza voler partire del tutto.
Nel piccolo giardino vicino a casa, uccellini timidi cinguettavano come se stessero imparando la loro prima melodia. Le foglie, cadendo leggere a terra, li accompagnavano in silenzio, sfiorandoli senza disturbarli.
Numan uscì sul balcone con in mano una tazza di caffè ancora intatta. Non era il caffè il suo vero scopo, ma quel momento in cui poteva osservare il mondo senza che nessuno lo interrompesse con la solita domanda: “A cosa stai pensando?”.
Ma presto si accorse di non essere solo.
Muna era lì, seduta all’estremità del tavolo. Aveva aperto un piccolo quaderno e ne sfogliava le pagine come chi esplora una mappa antica: non alla ricerca di un tesoro, ma di un attimo di confessione che attendeva dall’altra parte.
Alzò lo sguardo verso di lui e disse, con una voce calma che non fissava gli occhi ma colpiva dritto al cuore:
«Non hai dormito bene… vero?»
Lui rispose a bassa voce, con una sincerità che non aveva bisogno di giustificazioni:
«A volte… non è una scelta restare svegli.»
Muna chiuse lentamente il quaderno, poi sollevò il viso verso di lui. Nei suoi occhi c’era un misto di dolcezza e di un rimprovero lieve:
«Avrei voluto che mi raccontassi tutto… Non merito anch’io di sapere? E soprattutto, tu non meriti di restare solo con tutto questo.»
Numan la osservò a lungo. Non si aspettava che la mattina avesse questa chiarezza. Era come se un muro trasparente, che fino a quel momento lo separava dalla confessione, si fosse incrinato, rendendo visibile sulla superficie del suo cuore ciò che temeva di mostrare.
Disse, girando lentamente la tazza tra le mani:
«Non avevo paura della storia in sé… ma che cambiasse la mia immagine ai tuoi occhi.»
Lei sorrise. E il suo sorriso era come una preghiera segreta che le anime ascoltano in silenzio:
«Non c’è immagine di te nel mio cuore che qualcosa possa cambiare. Tutto quello che sei… è ciò che ti rende Numan. E io non voglio altro.»
Le sue parole lo toccarono con una dolcezza che feriva come fa una brezza gentile passando su una vecchia ferita: la cura senza riaprirla.
Poi, d’un tratto, Muna disse con una leggerezza che nascondeva l’emozione:
«Su… dimmi: come salveresti il mondo se fossi l’eroe di un romanzo di Orwell?»
Numan rise. Per la prima volta, quella mattina. Non era una risata fragorosa, ma la risata simile alla prima goccia di pioggia dopo una lunga siccità.
«Comincerei con una piccola domanda,» disse. «Qualcosa come: perché abbiamo paura di ciò che sappiamo essere vero?»
Una brezza leggera passò tra di loro, come se la vita stessa avesse inspirato e respirato.
In quel momento, Numan capì che qualcosa stava per cambiare, non solo in Muna, ma anche in lui stesso. E che quella mattina, per quanto sembrasse ordinaria, poteva essere forse il primo passo verso una lenta guarigione, non simile all’oblio, ma all’accettazione.
Poi la guardò, con uno sguardo carico di silenziosa speranza:
«Vuoi davvero ascoltare i dettagli del mio arresto? Anche se non ti riguarda direttamente, dato che vieni da un paese vicino, dove la politica è diversa… E forse parlare di politica qui non ti servirebbe che dolore?»
Muna comprese il significato profondo della sua domanda e, nonostante ciò, rispose con dolce determinazione:
«Sì.»
Lui sospirò, cercando di prepararla a ciò che stava per dire:
«Allora ascoltami come se stessi leggendo un romanzo di Orwell, Kundera o altri… Non come una persona che ha vissuto tutto questo su una terra che non ama le domande.»
Con genuino interesse, Muna domandò:
«E hai letto anche politica?»
«Sì,» rispose lui, «e religione, filosofia e altre scienze…»
Lei proseguì, seguendo il filo della curiosità:
«E chi sono quegli autori? E quali i loro libri più importanti?»
Numan sorrise leggermente e disse con tono significativo:
«La tua domanda è eccellente, perché riguarda la letteratura che è cresciuta sotto regimi di repressione e governo unico… come comunismo, fascismo, dittature militari o anche teocrazie. Molti di questi autori hanno affrontato censura, esilio o prigione perché hanno denunciato l’oppressione dei regimi sull’uomo.»
Si alzò, si diresse verso la sua stanza e tornò con un vecchio quaderno, segnato dalle sue dita. Lo sfogliò con cura e disse:
«Ti leggerò brevemente alcuni di loro… così non ti annoi, anche se ho tanto nel cuore da dire.»
Cominciò:
«Il primo autore che lessi, all’inizio della mia passione per la lettura, fu lo scrittore egiziano Naguib Mahfouz. Nei suoi romanzi Figli di Nostro Quartiere e Chiacchiere sul Nilo parlava delle sofferenze del popolo egiziano e muoveva critiche indirette al potere, rischiando persino un tentato omicidio per le sue idee.
Poi, dalla Russia, lessi Aleksandr Solženicyn con Arcipelago Gulag e Un giorno nella vita di Ivan Denisovič. Svelò l’esistenza dei campi di prigionia sovietici, per questo fu esiliato.
In Cina scoprii Lu Xun e Lao She, con Diario di un pazzo e La città dei gatti, opere simboliche sotto una severa censura.
Dalla Polonia conobbi Czesław Miłosz attraverso La mente asservita, dove analizzava psicologicamente l’adattamento degli scrittori ai regimi repressivi.»
Numan la guardò, un leggero sorriso accarezzò le sue labbra, e aggiunse con tono pieno di significato:
«Quanto a Orwell… lo leggiamo per capire ciò che viviamo, anche se lui stesso non l’ha vissuto.»
Muna, che fino a quel momento ascoltava assorta, disse con un pizzico di leggerezza:
«Ecco, sei tornato a Orwell… Credo sia lo scrittore che ha risvegliato in te quella memoria ieri sera.»
Numan chiuse delicatamente il quaderno tra le mani e si rivolse a lei, cercando di deviare la conversazione:
«E Orwell?»
Lo scrutò con uno sguardo metà stupito e metà rimprovero, e disse:
«Intendo… non è forse il momento di condividere la tua sofferenza invece di parlarne attraverso gli altri?»
Ci fu un attimo di silenzio. Poi lui rispose a bassa voce, quasi parlando a se stesso:
«Sì… Ti racconterò tutto. Ma ho pietà di me stesso, di quella parte di me che brilla nei tuoi occhi, perché non diventi storia e poi si trasformi in qualcosa che non voglio per lei, se qualcosa di nuovo accadesse.»
Lei, sorpresa, chiese senza nasconderlo:
«Hai davvero così paura?»
Annuiò e aggiunse, come per sciogliere il gelo del momento:
«Va bene… inizierò il racconto mentre prepariamo la colazione. Chiama tuo padre a unirsi a noi: è giorno di festa, deve uscire un po’ dal suo ufficio, rilassarsi e condividere cibo… e parole.»
Muna si alzò leggera verso l’ufficio del padre, mentre Numan si avviava verso la cucina, sistemando un tavolo semplice per ricostruire i ricordi sul fuoco lento della memoria.
Sul tavolo, tazze e piatti erano disposti in silenzioso ascolto, come se attendessero l’esplosione di una storia a lungo celata.
Si sedettero in cerchio, simile a una famiglia durante una calda cena d’inverno, ma ciò che sarebbe stato raccontato era lontano dall’intimità del calore.
Numan inspirò lentamente, come per svuotarsi dal peso di un passato antico, e disse con tono intriso di memoria:
«Era il sei ottobre… 1974. Un mese che non somiglia ad alcun altro nella mia memoria… perché in esso sono nato, e in esso è nato qualcosa d’altro che non muore mai.»
Muna lo guardò con occhi interrogativi e sussurrò:
«Qualcosa d’altro… è come se parlassi di una seconda nascita?»
Numan annuì: «Sì, è così… ma da un altro grembo.»
Continuò, intrecciando le dita sul tavolo:
«Due settimane prima di quel giorno, le insegnanti e gli amministratori della scuola superiore di Douma si erano riuniti e avevano deciso di organizzare una cerimonia per il primo anniversario della cosiddetta “guerra di ottobre liberatrice”, guidata dal generale Hafez al Assad, presidente della Repubblica Araba Siriana, comandante in capo delle forze armate.»
Il signor Ahmad inclinò il capo e commentò brevemente: «Conosco qualcosa di quei tempi…»
Numan sorrise e riprese:
«Lo spirito doveva restare sospeso sulle domande che non si fanno. Dopo che la direzione ottenne l’autorizzazione dalle autorità competenti, furono convocati tutti: personale e studenti. Cortili e ingressi furono adornati con striscioni, foto e bandiere; alla cerimonia parteciparono delegati del partito, delle organizzazioni popolari e dell’apparato politico.
La cerimonia si svolse come d’abitudine nelle manifestazioni patriottiche: inni che esaltavano la grande vittoria, discorsi che promettevano gloria eterna. Tutto andava come doveva andare… finché uno studente non alzò la mano e chiese il permesso di porre una domanda. Fu autorizzato e accolto con favore.»
Muna sollevò le sopracciglia, cauta: «E in quei contesti era permesso porre domande?»
Numan sorrise con tristezza: «All’apparenza sì… ma non era davvero così.»
Riprese il racconto, calando la voce:
«Lo studente disse: “L’anno scorso, due mesi dopo la fine della guerra, è arrivato in classe un nuovo compagno accompagnato da un tutor. Non c’era posto libero, tranne il banco accanto a me; si sedette fra me e il mio compagno. Ci disse di venire dal Golan, che la sua famiglia si era trasferita durante la guerra di ottobre, perché il loro villaggio era stato occupato. Gli chiesi: non siete sfollati del ’67? Lui rispose: no… siamo fuggiti nel ’73. Da quel giorno mi domando: come si può chiamare ‘guerra liberatrice’ quando abbiamo perso ciò che restava della nostra terra nel Golan? Avete una risposta per me?”»
Il signor Ahmad esalò un colpo di voce: «Ragazzo… una domanda così, nel vostro paese, si scrive col sangue, non con l’inchiostro!»
Numan scosse il capo con un sospiro profondo: «Fu esattamente così. In pochi istanti gli studenti si alzarono e partirono in una marcia spontanea. Sempre più compagni si unirono, gridando, raggruppandosi; sollevarono uno di loro sulle spalle. Nessuno comandava: era come se la rabbia fosse la loro guida. Arrivarono al cancello della scuola, poi proseguirono verso la via principale, il mercato.»
«E tu cosa facesti?» domandò Muna, inclinandosi verso di lui.
Numan distolse lo sguardo verso la finestra: «Ero con loro… camminavo senza rendermene conto. All’improvviso raggiungemmo il commissariato: il capo uscì con un fucile da parata russo e sparò in aria sopra le teste degli studenti. Gli slogan si dissolsero, le voci si spensero, le immagini crollarono; la protesta si disgregò come foglie d’autunno.»
Sospirò, poi continuò:
«Quella sera, quando la città si oscurò, ero nella mia stanza a leggere… ma la giornata non si era ancora conclusa. Sentii la voce di mio nonno chiamarmi, e nel suo tono c’era diffidenza e apprensione: “Hai commesso un crimine?” io, col cuore che batteva per lo stupore, risposi: “Non ho fatto nulla di ciò che dici…”»
Mentre parlavano davanti alla porta della mia stanza, entrarono gli uomini delle forze dell’ordine. Annunciarono a mio nonno che mi avrebbero portato via con loro. Mio nonno si pose a difendermi e disse: “Non ha fatto nulla che giustifichi che lo portiate via!”
Uno di loro disse:
«Avete ragione, ma il capo della stazione vuole solo porgli una domanda. Subito dopo ve lo restituiremo.»
Mio nonno chiese di accompagnarmi, ma rifiutarono e lo rassicurarono:
«Non è necessario. È solo una domanda e ve lo restituiremo subito.»
Il padre di Muna, con una preoccupazione antica nella voce, domandò:
«E te lo restituirono?»
Numan rise, con una punta di amara ironia:
«Chiedo scusa… il peggio delle disgrazie è che fa ridere!»
Muna si coprì la bocca con la mano e disse, emozionata:
«E come sei uscito?»
Numan continuò, abbassando la voce, richiamando l’ombra del ricordo:
«Lo scoprirai… era la sera del 6 ottobre 1974, giorno che corrisponde al 20 Ramadan 1394 dell’Egira.»
Muna, sorpresa, chiese:
«E ricordi ancora entrambe le date?»
Numan sospirò profondamente:
«La memoria di quei giorni è impressa per sempre… ma ciò che accadde dopo fu sorprendente: la detenzione si protrasse fino al 16 ottobre 1974, corrispondente al 30 Ramadan 1394 dell’Egira. Dieci giorni, sì, ma dieci giorni che non possono essere strappati dalla memoria di un uomo, né cancellati per un solo istante…»
Con voce bassa, come se stesse sussurrando un segreto all’ombra stessa, disse:
«La prima notte la passammo nella stazione di polizia di Douma, dopo quella domanda apparentemente innocua, che celava un volto crudele di minaccia, un’ombra sottile d’umiliazione e un sapore più amaro di qualsiasi insulto…»
Muna rabbrividì e lo interruppe, la voce flebile ma gli occhi spalancati su immagini che non aveva mai immaginato:
«Come?! Perché? Avevate un’accusa chiara?»
Numan chinò il capo, come chi ripercorre un’antica formula, poi disse:
«Tutto ciò che ci fu chiesto si ridusse a una sola domanda, senza altre: “Qual è la vostra appartenenza politica? Chi vi ha spinti a partecipare a una manifestazione che minacciava la sicurezza dello Stato?”»
Il padre di Muna fischiò tra sé, incredulo e rammaricato, e sussurrò:
«E voi eravate solo studenti… niente di più?!»
Numan rispose con una voce che portava in sé la profezia di chi ha assaggiato l’inizio e non conosce la fine:
«Sì, eravamo undici studenti. Ci hanno radunati come se fossimo catturati ai margini di un quadro. Ne conoscevo alcuni, degli altri non sapevo nulla…»
Respirò profondamente, poi espirò con tono tagliente:
«Al mattino ci hanno preso tutti i soldi che avevamo in tasca. Uno degli agenti li ha raccolti, sostenendo che avrebbero noleggiato due macchine per portarci chissà dove a Damasco.»
Tacque un momento, poi continuò, come se masticasse ogni frase:
«Siamo arrivati a Damasco dopo mezzogiorno… ci hanno fatto entrare in un edificio che ci dissero fosse l’Ufficio di Sicurezza Politica.
Uno dei guardiani ci disse: “Il nostro insegnante è una persona affidabile, non farà del male a nessuno, ma è a pranzo… o in giro… tornerà presto.”
Ci hanno rinchiusi in una piccola stanza che somigliava a una guardiola, in un angolo di quell’edificio gelido.»
Muna sussurrò:
«E voi… eravate digiuni?»
«Sì… e poco prima del tramonto uno di loro è entrato e ci ha presi, uno dopo l’altro… e non vedevamo mai nessuno tornare con noi.»
Il cuore di Muna accelerò, sembrava respirare con gli occhi.
Numan aggiunse:
«Quando è stato il mio turno, quel guardiano mi afferrò con una presa dolorosa e mi trascinò dentro.
Aprì una porta e mi spinse con forza. All’interno, non avevo neanche il tempo di vedere nulla che già un ceffone fragoroso mi colpì in faccia… mi gettò a terra come se fossi un mucchio di macerie o una pietra.»
Parlava con voce calma, ma che lacerava la pelle della quiete:
«Quell’uomo che mi aveva schiaffeggiato, fosse il capo, o il comandante, o il demonio… non lo so, mi chiese:
“Tifavi per Abdel Nasser o Gheddafi?”
Gli risposi, attenuando la verità:
“Abdel Nasser è morto da quattro anni, e io non ho niente a che fare con lui, né con Gheddafi…”
Ma mi interruppe con un insulto rivolto a mia madre… e io, colmo di rabbia, gridai:
“Tutto, tranne mia madre! Lei non c’entra nulla, se non con la purezza e l’onestà!”»
A quel punto la sua rabbia esplose; indicò un altro guardiano e mi fece uscire da un’altra porta, verso un’auto blindata dove erano già i miei compagni.
Numan sospirò, come chi ha lasciato scoppiare la pazienza trattenuta per anni, e continuò:
«E appena finì il primo interrogatorio, quella camionetta si mosse come se il vento trascinasse corpi fragili, oscillando a destra e a sinistra, senza guardare la strada, senza curarsi delle buche, finché non cademmo uno sull’altro, e le nostre teste sbatterono contro il tetto, rischiando di deformarsi, i nostri corpi quasi separati da noi stessi…»
La sua voce salì, poi scese in un sussurro:
«E poco prima del tramonto… siamo arrivati. La camionetta ci aveva finalmente condotti a un ingresso che conduceva a un cimitero e, alla fine, ci hanno fatto scendere davanti a un’enorme porta in pietra e ferro, alta e imponente, quasi la soglia di un castello. Ai lati, mura alte coronate da filo spinato. L’accoglienza era intensa, fatta di corpi e presenze che ricordavano tori infuriati nell’arena di una corrida spagnola, pronti a vendicarsi di chi, nel passato remoto o recente, li aveva sfidati o sconfitti.»
Siamo giunti, finalmente, a un corridoio stretto che conduceva a una porta di ferro altissima. Mi sembrava la fine di ogni via d’uscita. In quel momento compresi, nel profondo di me stesso, che quello che avevo considerato un passaggio temporaneo si era trasformato in una permanenza di durata ignota, dal destino incerto.
Guardai verso la porta e sospirai senza accorgermene, come se consegnassi la mia essenza a ciò che c’era oltre, senza speranza né resistenza.
Muna mi guardò con voce flebile e incerta:
«Vuol dire… che sapevi che saresti rimasto lì?»
La mia risposta fu velata:
«Sembrava che i muri mi dicessero: Attento! Qui avrai una lunga storia…»
Mi condussero nella prima stanza a destra dopo la porta. Il corridoio era lungo e le stanze si susseguivano ai lati, come tombe di pietra fredda, incise di fretta nel cuore di una notte muta.
La stanza era lunga quasi quanto il mio corpo e larga la metà. Quattro mura, un soffitto pesante e una piccola finestra circolare, sospesa come un occhio nel muro opposto alla porta, da cui entravano flebili raggi di luce e un filo d’aria, insieme a sussurri dolorosi di voci che non riuscivo a distinguere, ma che sapevo appartenere a chi veniva torturato sotto quella debole luce.
Il padre di Muna, corrugando la fronte, mormorò:
«Ma è possibile! Stanze così piccole? Non sono stanze, sono bare!»
Annuii, sospirando:
«Sì… ma bare senza silenzio, con qualcosa di infinitamente più lento della morte…»
Sotto la finestra, il WC a pavimento gemeva per la sporcizia, e l’odore era così forte da soffocare persino l’aria rara che entrava dal buco in alto. Accanto, un rubinetto di rame gocciolava incessantemente. Sul lato opposto, una piattaforma di cemento alta circa quaranta centimetri, inutile per sedersi o dormire, ma… era lì, e basta.
Passarono minuti di silenzio, interrotti solo dal mio respiro, quando la porta si aprì all’improvviso. Prima si spalancò la piccola finestra, poi lo sportello esterno, apparve il volto del guardiano senza tratti riconoscibili, che teneva tra le mani due coperte militari sottili, e me le porse:
«Una per il materasso, l’altra per la coperta.»
Chiesi mentre le sistemavo accanto a me:
«E il cuscino?»
Lui, con freddezza, rispose:
«Arrangiati… e non chiedere di nuovo.»
Il mio stomaco brontolava dalla fame, la bocca era secca per il digiuno e per tutto ciò che avevo sopportato. Gli dissi, con una richiesta contenuta ma ferma:
«Sto digiunando e ormai è ora di rompere il digiuno… puoi portarmi un pezzo di pane e un bicchiere d’acqua?»
Lui mi guardò un istante, poi rispose:
«Lo dirò all’ufficiale.»
Sorrisi, un sorriso di chi non possiede nulla se non la propria compostezza, e gli dissi:
«Grazie… e ti prego di riferire le mie personali e sincere gratitudini… in anticipo.»
Muna rise piano, un riso mescolato a sorpresa e un velo di risentimento, poi chiese:
«E davvero pensavi che ti avrebbero portato del pane?»
Numan sorrise, con una nota di ironia e allo stesso tempo di leggerezza:
«Non me lo aspettavo… ma una parola gentile, come l’acqua, deve sempre riuscire ad annaffiare anche la pietra.»
Poi, fissando il vuoto, come se richiamasse alla mente l’ombra di quei momenti, continuò:
«Passarono minuti pesanti dopo che il guardiano se n’era andato, minuti che sembravano ore che premevano sul mio petto. Nessuno veniva, nulla mi raggiungeva. La luce pallida che filtrava dal buco in alto nel muro si dissolveva poco a poco, ma i suoni dalle stanze vicine non tacevano: gemiti, urla, colpi che sembravano martelli sul carne viva.»
Si appoggiò allo schienale della panca, sospirando, e proseguì:
«Quando cercai di prepararmi al sonno, o meglio, a raggomitolarmi su me stesso, stesi una delle coperte sul pavimento come letto e ripiegai l’altra per farne un cuscino. Stavo per chiudere gli occhi, quando il guardiano tornò, aprì la finestra della porta di ferro e, con voce secca come uno schiaffo, ordinò: “Togliti i vestiti e aspetta!”»
Gli occhi di Muna si spalancarono, pieni di stupore e un nodo di rabbia trattenuta:
«I tuoi vestiti?! E perché?»
Numan sorrise debolmente:
«In quel momento non osai chiedere. Togliere la giacca della scuola fu tutto ciò che feci, rimanendo in piedi ad aspettare. Dopo poco, il guardiano tornò, mi scrutò di nuovo dal buco e disse: “Togliti tutto, resta solo in pantaloncini.”»
Il padre di Muna respirò a fondo, preoccupato:
«E l’hai fatto?»
Numan, con gli occhi fissi nel vuoto, rispose:
«Sì. Rimasi in piedi nell’angolo, tremando per il freddo, aspettando che tornasse. Ma non tornò. Stare lì era estenuante, le mie forze cedevano alla fame e alla sete. Mi avvicinai al rubinetto fissato al muro, cercai di pulirlo con le mani e raccolsi goccia a goccia quanto potevo, giusto per sorseggiarne un po’ e fare le abluzioni per la preghiera.»
Muna alzò un sopracciglio e domandò:
«E stavi ancora digiunando?!»
Annuii:
«Sì… Non conoscevo la direzione della qibla, quindi pregai in piedi, rivolto verso dove potevo. Combinai il maghrib con l’isha, e quando ebbi finito, la porta si aprì di nuovo e il guardiano entrò trascinandomi dietro di sé, afferrandomi per i capelli, come fossi un topo intrappolato nella sua tana.»
Il silenzio calò tra i tre, come un peso che schiacciasse la stanza… Poi il padre di Muna mormorò a voce bassa:
«Figlio mio… questo Paese non dovrebbe trattare i suoi figli in questo modo…»
Numan scosse il capo e disse:
«Alcuni Paesi, zio, divorano i propri figli quando temono i loro sogni.»
Poi, con voce misurata, come chi narra un sogno dal quale non si è ancora svegliato, continuò:
«Il guardiano mi condusse in una stanza che somigliava all’ufficio di un funzionario. Ordinata, luminosa di una luce tenue che non rassicurava affatto. All’entrata stava un uomo, e tre altri uomini erano disposti con calma negli angoli, come parte dell’arredamento, o come ombre.»
Fece una breve pausa, poi riprese ricordando ogni dettaglio:
«A circa due metri, o forse di più, dal tavolo, sedeva un uomo sulla cinquantina, capelli radi, mescolati di ciocche grigie e biondo chiaro, come se il tempo avesse dimenticato di farli invecchiare. Si alzò dalla sedia, sorridendo, e si avvicinò a me: “Benvenuto, signor Numan! È questo il tuo nome, se ho letto correttamente…”»
Muna guardò suo padre e sussurrò:
«Sembra gentile al primo impatto… pensi fosse davvero così?»
Numan le sorrise di sfuggita:
«La gentilezza in posti come questo è un inganno delicato…»
Poi continuò, a voce bassa:
«Sfogliò alcune carte davanti a sé e disse: “Numan Al-Barbari. Studente di scuola superiore, istruito, religioso e devoto.”»
Mi guardò e chiese:
«Queste informazioni sono corrette?»
Risposi con calma:
«Sì, sono corrette.»
Alzò un sopracciglio:
«Come si conciliano cultura e religione insieme, in un giovane della tua età?»
Risposi:
«Ho letto di molti che erano più devoti e più colti di me.»
Chiese, incuriosito:
«Come chi?»
Inspirai profondamente e iniziai a elencare:
«Mehmed il Conquistatore, sultano ottomano, salì al trono a diciannove anni, memorizzava il Corano, esperto di giurisprudenza, parlava diverse lingue e conquistò Costantinopoli in gioventù.
Ibn al-Nafis, scopritore della piccola circolazione sanguigna, giurista shafiita e medico geniale, unì scienza, religione e filosofia.
John Henry Newman, dall’Inghilterra, prete, poi cardinale, pensatore religioso, profondo nella fede e acuto nel pensiero.
Dietrich Bonhoeffer, teologo tedesco, criticò il nazismo in gioventù e pagò con la vita per la sua posizione.»
La sorpresa era evidente sul volto del padre di Muna, poi disse:
«Davvero hai letto tutto questo?»
Numan rispose con calma:
«Sì, ho letto.»
L’uomo sembrava incredulo:
«Quando e come sei riuscito a capirli? Sei ancora piccolo, e lavori d’estate per pagarti gli studi!»
Io risposi senza indugiare:
«È la mia passione più grande.»
L’uomo continuò:
«E quali sono gli argomenti principali che hai letto?»
Risposi:
«Non ho limiti precisi, leggo tutto ciò che mi capita sotto mano.»
Cercando di chiarire meglio, chiese:
«Ad esempio?»
Risposi:
«Inizio con ciò che mi aiuta a comprendere le mie lezioni, poi mi espando… nelle scienze, nella lingua, nella letteratura, nel pensiero, nella filosofia, nella religione… tutto ciò che placa la mia sete di conoscenza.»
L’uomo chiese ancora:
«E ricordi quello che leggi o lo dimentichi?»
Risposi:
«Riepilogo tutto ciò che leggo, così, se dimentico, posso sempre tornare ai riassunti.»
L’uomo rise brevemente, poi disse:
«Allora sono davanti a un piccolo scienziato!»
Risposi con modestia:
«Dio me ne guardi… non sono altro che un piccolo studioso.»
Finalmente l’uomo chiese:
«Hai bisogno di qualcosa prima di iniziare l’interrogatorio?»
Io dissi:
«Signore, sono stato digiuno tutto il giorno e l’alba arriverà tra poco. Se potesse cortesemente portarmi un pezzo di pane, un bicchiere d’acqua e due sigarette prima del digiuno.»
L’uomo chiamò uno dei suoi guardiani e gli ordinò di procurarmi quanto avevo chiesto, e di rinviare l’interrogatorio a dopo il pasto dell’alba del giorno successivo, così da poter riposare.
Numan sospirò, come se gli occhi stessero ripercorrendo quelle ombre della notte:
«La sera, dopo aver terminato il mio modesto pasto d’alba — due pezzi di pane, un po’ di tahina, acqua e due sigarette — sembrava per un attimo che mi fosse rimasta un’ultima traccia di libertà, oltre quel muro.»
Muna scosse lentamente la testa e mormorò:
«Sembra che all’inizio non ti abbiano trattato male, vero?»
Numan rispose:
«Alcune porte non si chiudono mai tutte in una volta, Muna… si aprono con delicatezza, poi ti vengono sbattute addosso all’improvviso.»
Poi continuò, la voce calma ma carica di memoria:
«L’uomo stesso mi prese e mi condusse nella stanza degli interrogatori, quella che avevo lasciato poco prima dell’alba. Guardai l’uomo seduto dietro la scrivania: appariva stanco, ma il suo sorriso tranquillo era intatto. Si sedette di nuovo dietro il tavolo dopo essersi alzato per accogliermi all’ingresso. Mi parlò con voce bassa, quasi un sussurro:
“Cominciamo adesso, Numan… ma voglio essere chiaro: sappiamo tutto di te, ma vogliamo che parli tu. Questo ti risparmia molto di ciò che può accadere: torture, colpi, umiliazioni. Ti prometto che ciò che dirai volontariamente potrà cambiare il tuo destino, quello che tocca alla maggior parte dei prigionieri. E visto che sei colto e religioso, sai riconoscere il valore della verità.”»
Lo guardai in silenzio. Non avevo voglia di discutere, né la capacità di ignorare.
Aprì un fascicolo davanti a sé e disse:
«Numan, qual è la tua relazione con Tizio Caio?»
Guardai il nome… non lo conoscevo.
Risposi:
«Non lo conosco, signore.»
Mi fissò a lungo, poi tracciò alcune righe sul foglio e chiese:
«Bene… chi ha strappato la foto del Presidente e qual è il tuo coinvolgimento?»
Risposi:
«Non ho visto nessuno strappare la foto del Presidente, e non so nulla a riguardo, signore!»
Le domande si susseguivano, alcune su persone di cui non avevo mai sentito parlare, altre sui libri che avevo preso in prestito dalle biblioteche scolastiche o pubbliche, oppure trovato per caso in un mercato popolare. Altre ancora riguardavano gruppi di giovani che incrociavo senza conoscerne i nomi. Le domande si avvolgevano attorno a me come corde invisibili. Tra i libri interrogati, il più importante era probabilmente 1984.
Il padre di Muna interruppe con preoccupazione:
«E davvero non c’era alcun coinvolgimento da parte tua? O c’era almeno qualche sospetto?»
Numan rispose con sicurezza:
«Leggevo molto, sì, e a volte discutevo in alcune lezioni. Ma nessuna organizzazione, nessuna incitazione, nessun legame. Solo una mente aperta… e questo bastava a rendermi sospetto.»
Muna, con gli occhi lucidi, chiese:
«E l’interrogatorio è durato a lungo?»
Numan annuì:
«Due giorni senza dormire. Le domande venivano ripetute in modi diversi. Ogni risposta veniva annotata, ogni silenzio contato. Quando qualcosa era poco chiaro, portavano fascicoli e quaderni, come se scavassero dentro di me e non nei loro documenti.»
Poi fece una breve pausa e aggiunse:
«Il terzo giorno il interrogatore mi disse:
“Numan, non serve più tentare di aggirarci. Sappiamo che sei in contatto con chi cerchiamo, ma vogliamo sentire da te.”»
Gli risposi:
«Signore, non ho nulla da nascondere. E se lo avessi, perché dovrei celarlo? Pensi davvero che io voglia soffrire in questo carcere?»
Lui rise, poi disse:
«Sei testardo, allora… vedremo quanto resisterai.»
Il volto di Muna si fece cupo e sussurrò a malapena:
«Ti hanno picchiato?»
Numan la fissò a lungo, poi rispose:
«Il colpo era la cosa meno grave, Muna…»
Seguì un silenzio pesante.
Numan parlò, con voce velata di tristezza, come se le parole gli venissero da un fondo gelido:
«La terza notte avevo perso la percezione del tempo. Nessuna finestra mi indicava il giorno, nessuna voce del muezzin il sorgere o il calar del sole. La cella era angusta, le pareti mi restituivano il respiro come ricordandomi, ad ogni momento, che ero solo.»
Il padre di Muna lo interruppe:
«E avevi paura?»
Numan sorrise debolmente e disse:
«Paura? La paura mi abitava e non mi lasciava, ma non era paura dei colpi o delle urla… era paura dell’ignoto, dello svanire, che la tua storia venga dimenticata in un cassetto arrugginito.»
Muna chinò il capo, sussurrando:
«E come hai passato quella notte?»
Numan rispose:
«Mi sono rannicchiato su me stesso sulla panca di cemento, ho usato una delle coperte come cuscino e l’altra come coperta leggera che non respingeva il freddo né dava calore. La stanza era immersa nel silenzio, ma da dietro il muro arrivavano suoni di pianti sommessi, urla improvvise, o lo stridere di catene su un pavimento bagnato. Il vento fischiava in un corridoio lontano, e le gemiti ovattati rimbalzavano come echi da un altro mondo.»
Muna lo interruppe, gli occhi brillanti:
«C’era qualcun altro con te?»
Numan rispose a bassa voce:
«Non ho visto nessuno, ma i suoni ti parlano di ciò che non puoi vedere. C’era chi soffriva, chi implorava, chi ansimava… e chi non si sente più perché ha taciuto per sempre.»
Il padre di Muna tossì leggermente, come per scacciare qualcosa rimasto nel petto, e disse con voce grave:
«E sei rimasto solo quella notte?»
Numan annuì:
«Sì… solo con un terrore muto, e con il volto di mia madre che non mi abbandonava. Mi sono rannicchiato su me stesso, senza sapere perché non piangevo. Forse qualcosa dentro di me resisteva alla frattura. Ho cercato di ricordare ciò che sapevo del Corano, ma la mia voce mi ha tradito, poi ho invocato la preghiera di mia madre: “Dio, abbi pietà di noi, sii per noi e non contro di noi.”»
Fece una pausa, poi aggiunse:
«Poco prima della mezzanotte, la porta di ferro si aprì all’improvviso. Il mio cuore saltò in gola. Il guardiano entrò, mi afferrò per la testa da dietro, come si tiene il collo di una bottiglia, e disse: “Vieni!”
Non parlai. Trascinai i miei passi dietro di lui, i piedi quasi nudi sul pavimento freddo, il muro ci sfiorava come un occhio che ci sorvegliava, semi-chiuso.»
Muna, stringendo la mano del padre, sussurrò:
«Papà… non riesco a immaginare… perché? Perché trattano così una persona?»
Numan rispose con calma amara:
«Perché quando la paura abita uno Stato, ogni domanda diventa reato, ogni curiosità accusa.»
Poi il padre di Muna li guardò entrambi, sospirando e con tono rabbioso:
«Tutto questo e non c’era un’accusa chiara?»
Numan replicò:
«In quei mondi, zio, l’interrogatorio non inizia con un’accusa, ma con un ordine amministrativo, che cresce fino a diventare un tunnel senza uscita.»
Muna chiese:
«Dove ti hanno portato?»
Numan la guardò:
«In una stanza dalla luce fioca, con un tavolo di metallo e due sedie. Entrò un uomo nuovo, che non avevo mai visto, con una leggera barba e tratti freddi. Si sedette di fronte a me, poi disse con voce monotona, come recitando un inno: “Sei qui perché c’è qualcosa in te che non ci piace… pensi, leggi, fai domande. E questo è troppo.”»
Io risposi:
«È un crimine?»
Sorrise e disse:
«Non è un crimine… ma non è nemmeno desiderato. Ciò che serve è che tu sia una copia degli altri. Non discutere, non analizzare, non accendere la luce quando viene spenta.»
Gli chiesi, con calma:
«E se io amassi la luce?»
Rispose alzandosi dalla sedia:
«Imparerai ad amare il buio… o a dissolverti in esso.»
Muna trattenne il respiro e disse:
«Mio Dio… come hai sopportato tutto questo?»
Numan rispose:
«Mi aggrappavo a qualcosa di piccolo dentro di me… lo chiamavo sogno, o forse fede, o il ricordo del volto di mia madre… non so. Ma era la mia unica luce.»
Poi tacque di colpo.
Il padre di Muna, con voce ferma:
«Continua, ragazzo, non fermarti… la storia non deve essere sepolta nel silenzio.»
Numan lo guardò, poi guardò Muna, e sorrise pallido:
«Continuerò… ma non ora. È l’ora di pranzo. Alcuni dolori hanno bisogno di un respiro, e certe ombre non si raccontano tutte in una volta.»
Muna aggiunse:
«Io non riuscirò a mangiare, immaginandoti in una scena così… bevi quest’acqua e continua.»
Numan sorseggiò un po’ d’acqua e riprese:
«Quando mi trascinarono di nuovo fuori dalla cella, sentii che mi stavo consegnando a una notte senza fine. I miei passi erano pesanti, le gambe a malapena mi reggevano. La porta di ferro si aprì su un volto che ormai conoscevo bene: quel nuovo inquisitore, calmo, sempre sorridente, lo stesso che avevo incontrato all’alba della prima notte.
Mi sorrise e indicò una sedia davanti alla sua scrivania:
— “Prego, signor Numan.”
Mi sedetti, ma i miei occhi no. Si muovevano nello stesso spazio, come se il tempo non fosse passato da quella notte. Uomini sullo sfondo, immobili come statue che non respirano. Un grande ritratto del Presidente ci osservava dall’alto, pieno di silenzio. Sulle pareti gli strumenti di tortura: fruste, fili elettrici, bastoni di legno, e un dispositivo metallico che l’occhio non poteva fraintendere. Nulla di nuovo… tranne un freddo più profondo nelle ossa.
Lui spostò un foglio dal tavolo e disse:
— “Guarda, signor Numan… mi sono impegnato personalmente per essere io a condurre l’interrogatorio. Non voglio che tu finisca nelle mani di chi non sa parlare a un giovane colto e consapevole come te. Non sarai picchiato, non sarai umiliato… così ti ho visto, e così voglio parlarti.”
Poi aggiunse, alzandosi e invitandomi a seguirlo:
— “Prima di cominciare… vieni, ti farò fare un piccolo giro. Poi torniamo e riprendiamo il nostro discorso… da amici, non da inquisitore e detenuto.”
Lo guardai, non risposi. Mi limitai ad alzarmi.
Muna sussurrò:
— “Un giro? Nel carcere?”
Il padre aggrottò le sopracciglia, come se avesse intuito qualcosa:
— “Questa non è una passeggiata, ma un preludio a un messaggio avvolto nella minaccia.”
Numan continuò con voce ferma, come chi narra un ricordo inciso nella carne:
«Saliamo una stretta scala, dietro di noi due uomini imponenti, con le mani legate dietro la schiena, pronte a impugnare le armi. Ogni gradino sembrava inghiottire l’aria, rendendo il respiro più pesante. Arrivammo sul tetto del carcere; lì spalancò le braccia come chi introduce a un rito sacro e disse:
– “Vedi? Siamo qui… nel cuore di un cimitero dove nessuno sente, se non i morti.”
Guardai l’oscurità che si estendeva davanti a me. Muri altissimi ci circondavano, e un silenzio denso pesava come blocchi di ferro. L’aria era fredda, ma non pura… anch’essa imprigionata, trattenuta, come se respirasse dietro sbarre invisibili.
Poi mi riportò al piano inferiore. Passammo attraverso un corridoio dove l’umidità parlava dalle pareti con una lingua antica di muffa. Si fermò davanti a una macchina enorme vicino al muro, indicandola a bassa voce:
– “Guarda bene… non è che uno strumento. Schiaccia il corpo finché non resta nulla. La usiamo quando disperiamo di ottenere confessioni. Tutto ciò finisce in un condotto, in basso… dove non resta né nome né odore.”
Muna sobbalzò, e la sua mano tremava tra le sue.
– “Non… non ci credo.”
Suo padre parlò con tono fermo, ma sotto vi era un’inquietudine profonda:
– “È credibile, Muna… questa è la macchina del regime, non del cuore umano.”
Poi si voltò verso di me, come per chiudere la presentazione, e disse:
– “Chi entra qui, esce da tutto… persino dalla memoria. E se qualcuno chiedesse di lui, diremo: non è mai passato di qui. Quelle voci che hai sentito prima? Loro ancora puntano sull’oblio.”
Mi prese delicatamente per le spalle e mi riportò nel suo ufficio. Ordinò ai suoi uomini di uscire e chiuse la porta. La sua voce si abbassò, quasi un sussurro vicino:
– “Signor Numan, ti prego… non pensare a te stesso come se fossi nel carcere di Sheikh Hassan. Non lasciare che il luogo ti spaventi.”
Fece una pausa, poi aggiunse con tono morbido:
– “Voglio un dialogo tra noi, come amici… nulla di più. Ti piace l’idea?”
Guardai nei suoi occhi e vidi una maschera che ascoltava un’altra maschera. Risposi:
– “Sì… sono pronto a dialogare, con tutta la sincerità e onestà che ho. Quando vuoi, iniziamo.”
Muna alzò gli occhi verso suo padre e sussurrò:
– “Ma… può davvero esserci dialogo? O è un altro capitolo di un gioco?”
Rispose con calma e saggezza:
– “A volte, Muna… il dialogo in un carcere è un altro strumento di tortura… ma più sottile.”
Numan continuò con voce misurata e un po’ esitante:
«Si sedette di fronte a me, posando la mano destra sul tavolo, e parlò come a un amico tornato da un lungo viaggio:
– “Sei un giovane intelligente, Numan. Ho letto il tuo fascicolo e ho apprezzato le annotazioni a margine dei libri sequestrati dalla tua stanza. Ho mandato i miei uomini a perquisire la tua casa, ma non hanno trovato altro che i tuoi quaderni di appunti, giusto? Questo è il tuo lavoro?”
Mostrò uno dei miei quaderni. Annuii. Continuò:
– “Hai una mente che pensa e uno spirito che discute. Per questo sono qui per ascoltare, non per dettare.”»
Rimase in silenzio, come chi aspetta che Muna tiri un filo di parola, ma io preferii osservare in attesa.
Aprì un piccolo cassetto sulla sua scrivania e ne estrasse un quaderno dal dorso sbiadito:
– “Perché hai scritto questa nota sul tuo riassunto del libro Dottrina e Politica?”
Si fermò un attimo, poi lesse a mezza voce:
“Il pericolo nasce quando la dottrina si trasforma in strumento del potere, e il potere diventa sacro, intoccabile da chiunque.”
Lo guardai fisso e risposi senza esitazione:
– “Perché l’ho visto… nei libri di storia e nella nostra realtà.
John Stuart Mill scrisse nel suo Sulla libertà nel 1859 che il pericolo comincia quando il potere politico diventa sacro, intoccabile, sia in nome della religione sia in nome della nazione.
E aggiunse che la libertà non può esistere senza controllo, né essere protetta senza una mente che resista alla falsa sacralità.”
Il commissario sorrise lievemente, lanciando un’occhiata al foglio davanti a sé, poi disse:
– “Hai detto che preferisci il dialogo… allora dialoghiamo.”
Muna inclinò la testa verso suo padre e sussurrò a bassa voce:
– “Papà, sembra che stia cercando di conquistarlo in un modo diverso… non è così?”
Suo padre sospirò profondamente:
– “Lo seduce con le parole… prima di legarlo alla confessione.”
Numan continuò:
Il commissario intrecciò le dita e chiese:
– “Che pensi di quelli che negano tutto, convinti che il silenzio li protegga?”
Risposi con calma studiata:
– “Forse perché hanno perso la fiducia… dopo aver visto chi ha confessato senza che la confessione lo salvasse.”
Mi scrutò a lungo e domandò:
– “E tu… seguirai la loro strada?”
Risposi con voce ferma:
– “Non ho fatto ciò di cui sono accusato, e non provo vergogna per ciò che ho fatto.
Ma non credo che una confessione in questo luogo produca giustizia, né che il silenzio salvi.”
Sorrise, come se avesse trovato ciò che cercava. Poi si alzò lentamente, si diresse verso una piccola finestra che non si poteva aprire e, girandosi di spalle, disse:
– “Credi che un sogno possa essere ucciso?”
Lo guardai, occhi fissi sulla luce della lampada appesa:
– “No… ma può essere negato, affamato, imprigionato… e sepolto temporaneamente.
Ma non muore.”
Si voltò di colpo e disse:
– “Bene… facciamo che questa notte sia l’inizio del sogno, non la sua fine.”
Muna seguiva le parole come se stesse ascoltando un enigma antico. Sussurrò lentamente:
– “Sta offrendo un patto… o forse me lo sto solo immaginando?”
Suo padre la osservava, percependo il tremito nella sua voce:
– “Forse.
Ma, molto probabilmente, sta preparando il terreno per strappare ciò che vuole… con l’abilità di un attore, non con la sincerità di un amico.”
Numan continuò:
Il commissario si sedette di nuovo, appoggiando la schiena sulla sedia, e mi scrutò con uno sguardo lungo, come se stesse calibrando il peso delle mie parole. Poi disse a bassa voce, con un tono lievemente affabile:
– “Se fossi al tuo posto… approfitterei dell’occasione. Non vendiamo illusioni, ma offriamo scelte.”
Risposi con calma sospettosa, una voce che tradiva il più profondo avvertimento nel mio petto:
– “E io qui… non cerco salvezza a qualunque costo, ma sono pronto al dialogo, come dici tu, purché sia un dialogo… e non un’esca.”
Rise leggermente, un sorriso breve, quasi colto di sorpresa, poi lo nascose dietro una maschera di controllo, e disse:
– “Ti piace apparire forte… Bene, lascia che ti mostri come si rispetta la forza quando è al suo posto.”
Aprì un cassetto, ne estrasse una piccola fotografia in bianco e nero, si chinò verso di me e la sollevò davanti ai miei occhi.
Un giovane… il volto violaceo, coperto di lividi spessi. L’immagine non era nitida, ma i tratti del viso erano impossibili da ignorare.
Sobbalzai… ma mi trattenni.
Parlò a bassa voce, come chi presenta una prova inequivocabile:
– “Lo conosci, vero?”
Non risposi, ma il mio silenzio parlò al posto delle mie labbra.
Continuò, scrutando attentamente il mio volto:
– “Sta bene… se collabori.”
Risposi con freddezza:
– “Non siamo forse tornati al ricatto?”
Sorrise, come se nulla fosse accaduto, e con tono sfaccettato disse:
– “No… stiamo solo praticando l’arte della precauzione, Numan.”
Rimase in silenzio un momento, poi estrasse un foglio bianco, aggiustò la posizione sulla sedia e disse:
– “Ricominciamo da capo. Rispondimi con sincerità, senza giri di parole. Nessuno ti disturberà.”
Lo guardai senza suppliche né paura, e dissi:
– “Chiedi pure quello che vuoi.”
Muna si asciugò una lacrima al bordo dell’occhio e sussurrò:
– “Papà… non sta solo interrogando, sta giocando con i cuori.”
Suo padre le strinse la mano tremante:
– “Sì… questa non è una sessione d’interrogatorio, è una demolizione lenta, finché non ottiene ciò che vuole… e sorride.”
Numan continuò:
Il commissario mi rivolse la parola con un tono quasi ufficiale:
– “Appartenevi a qualche organizzazione segreta?”
– “No.”
– “Hai incontrato persone sospette?”
– “Ho incontrato compagni di studi, venditori di libri in librerie rinomate o sui marciapiedi, direttori di biblioteche pubbliche, un professore di letteratura durante una conferenza…
E più di tutti: mia madre.
Mia madre che mi ha trasmesso l’amore per la lettura, che ogni sera aspettava il mio ritorno, senza dormire finché non fossi tornato.”
– “Hai scritto pubblicazioni politiche?”
– “Ho scritto pensieri, qualcosa che chiamo poesia, e riassunti raccolti dai margini dei libri che leggevo… Non sono stati stampati né distribuiti. E ora sono tra le vostre mani.”
– “Pensi che il regime sia corrotto?”
Lo guardai intensamente e risposi:
– “Credo che ogni sistema che non venga reso responsabile produca corruzione… anche se fosse iniziato dai profeti.”
Il commissario rimase in silenzio per un istante, poi si alzò in piedi, mormorando come parlasse a se stesso:
– “Forse sei più pericoloso di quanto pensassi…”
Si voltò verso di me con tono velato di mistero:
– “Domani continueremo… e trasformerò il nostro dialogo in qualcosa che non dimenticherai.”
Appoggiò una mano sul tavolo, e un uomo entrò indossando abiti grigi smorzati, senza arma, senza apparente rabbia, ma con uno sguardo così freddo da gelare.
Il commissario parlò con tono rassicurante:
– “Accompagna il signor Numan nella sua cella… deve riposare. Domani sarà un nuovo giorno.”
Mi alzai dalla sedia come se avessi perso la percezione del peso del corpo. I miei passi erano pesanti, non solo per la stanchezza, ma per il peso dell’immagine che non mi lasciava le palpebre… e per ciò che ancora doveva venire.
Nel corridoio inferiore, le luci emettevano un ronzio intermittente, come gocce di luce che cadevano lentamente su corpi senza nome.
La guardia aprì la porta della cella e mi fece segno di entrare.
La sua voce monotona, come istruzioni prive di anima:
– “Dormi ora… gli incubi attendono chi resta sveglio.”
Poi chiuse la porta.
Mi rannicchiai su me stesso, non perché lo spazio fosse stretto, ma perché l’anima era compressa dentro di me.
La coperta accanto a me non era più una coperta… era pelle di silenzio pesante, a separarmi dal mondo.
Non riuscivo a dormire. Mi distesi sulla schiena sulla piattaforma di cemento della cella.
Il muro ripeteva l’eco delle sue parole:
– “Pratichiamo l’arte della precauzione, Numan…”
Muna sussurrò, cercando di trattenere il tremito delle labbra:
– «Si può davvero dormire dopo tutto questo?»
Suo padre le posò la mano sulla pelle come per calmarla e rispose:
– «No… qui il sonno è una morte in piccolo. Il corpo non riposa, la mente non tace.»
Poi, dopo una pausa:
– «Ma Numan… tra le pietre gli è cresciuto un cuore che non si spezza.»
Numan riprese a parlare:
«Verso la fine della notte, sdraiato sul pavimento freddo, sentii qualcosa che si rompeva dentro di me e qualcos’altro che germogliava. Un piccolo movimento nella cella mi svegliò. Aprii gli occhi. C’era un grosso topo accucciato sul mio petto, ci guardavamo in faccia. Mi colpì la lunghezza dei suoi baffi, il naso che tremava come se annusasse: è nemico o cibo?
Con lentezza presi l’ultima pagnotta secca che stava accanto alla testa, la posai vicino a lui. Si avvicinò, la rosicchiò con calma misurata. Lo osservai immobile, senza osare spalancare gli occhi o lasciar uscire un respiro che rompesse quel silenzio fragile, gli ultimi istanti prima dell’alba.
Quando ebbe finito, mi lanciò uno sguardo rapido e tornò verso lo scarico del water, scomparendo da dove era venuto.
L’oscurità della cella era come una pagina nera, piena di immagini e parole ancora da scrivere… ma l’inchiostro dentro di me non era più inchiostro: era sangue, dolore, e domande senza risposta.»
Il padre di Muna intervenne: «Lasciamo che Numan riposi un po’ nella sua stanza. Prepariamo il pranzo: ha passato ore di fatica, deve riposare.»
In cucina il vapore saliva dalla pentola, riempiendo l’aria di un odore caldo che sembrava voler scrostare il gelo rimasto sul cuore. Muna tagliava la verdura lentamente; il coltello batteva sul tagliere con un ritmo meccanico, un battito nervoso che non si quietava.
Suo padre, versando poco sale nella zuppa senza guardarla, disse:
– «Sapevo che la quarta notte sarebbe stata la peggiore… eppure ha resistito più di quanto pensassi.»
Muna tacque un attimo, poi mormorò:
– «Papà… quel che gli stava sul petto — era davvero un topo? O un’immagine, un fantasma con la forma di un topo? Non riesco a scacciare quella scena dalla mente, come se il topo mi avesse interrogata.»
Il padre sollevò il coperchio, annusò e lo richiuse; la sua voce aveva una ruvidezza antica:
– «In prigione, non c’è molta differenza tra il topo e l’interrogatore. Entrambi vengono dall’ombra, entrambi scavano per trovare la tua piccola vulnerabilità, quel pezzetto di paura da sbranare.»
Muna si sedette sulla sedia, appoggiando la testa al muro, e parlò a voce bassa:
– «Gli ha detto: “Pratichiamo l’arte della prevenzione, Numan…”
Papà, non ti sembra che questa frase da sola… sia un veleno mascherato da sorriso?»
– «Sì… veleno puro. Per loro la prevenzione significa sottomettersi prima ancora di essere costretti. Spaventare se stessi prima che qualcuno ti spaventi. È prevenzione contro la dignità, non contro il dolore.»
Gli occhi di Muna si persero in ombre lontane:
– «Ma Numan… non ha ceduto, nemmeno quando rispondeva sul sistema: “Ogni sistema che non viene messo in discussione produce corruzione, anche se parte dai profeti…”
Per un attimo ho avuto la sensazione che l’interrogatore non rispondesse perché temeva di aver udito la verità.»
Il padre si avvicinò, posò davanti a lei un bicchiere d’acqua e si sedette accanto a lei:
– «Sì… quella frase era un coltello nel petto del tiranno.
Ecco perché gli ha detto: “Forse sei più pericoloso di quanto pensassi…”
Perché il pericolo non sta in chi impugna un’arma, ma in chi pianta un’idea.»
Muna sorrise, un sorriso misto di orgoglio e dolore, e sussurrò:
– «Che bello… nel momento di massima debolezza, rifiuta la salvezza a qualunque costo.
E di fronte al dolore, alza la testa come per dire loro: prenderete solo il mio corpo… ma la mia anima è sfuggita a voi.»
Il padre si alzò, spense il fuoco sotto la pentola e guardò fuori dalla finestra come a contemplare qualcosa di invisibile. Poi parlò, con voce calma:
– «Domani… forse gli proporranno più di quanto possa sopportare.
Lo metteranno alla prova sulle parole, sul silenzio, persino sul suo nome.»
Si voltò verso Muna e aggiunse:
– «Ma non cadrà nelle loro trappole: è più astuto di così.»
Muna, con voce tremante, chiese:
– «E tu… come ne sei sicuro?»
Si avvicinò, le carezzò la spalla e disse:
– «Perché è figlio del sogno… non della paura.»
Il silenzio calò pesante in cucina, interrotto solo dal rumore del mestolo che mescolava il cibo, un tintinnio che sembrava il battito di un tempo che non vuole finire.
Dalla finestra con vetro smerigliato filtrava la luce del primo pomeriggio, tracciando sulla tavola linee dorate e polverose, come le rughe del tempo sul volto di una madre stanca di aspettare.
Muna chiamò Numan: il pranzo era pronto. Ma lui sbirciò dalla sua stanza, ringraziandoli e accennando che aveva più bisogno di riposo che di cibo.
L’odore del pasto aveva già perso il suo calore quando Muna si sedette davanti al padre al tavolo rettangolare della cucina. Il piatto davanti a lei non era invitante, ma prese un boccone con riluttanza. Il padre, notando il suo turbamento, parlò con calma mentre versava un po’ di cibo nel suo piatto:
– «Mangia, Muna. Chi è nelle celle non ha questo privilegio.»
Scosse la testa e disse, a voce bassa e velata di vergogna:
– «Mi dispiace… il cibo in bocca è come pietra. Ogni volta che ricordo l’immagine del topo sul suo petto… non ce la faccio.»
Il padre sospirò lentamente, posò il cucchiaio e la guardò negli occhi:
– «Quello che Numan ha fatto la scorsa notte non è solo sopportare la crudeltà, è una lezione di dignità. Perfino il topo, in quel momento, non era un nemico… ma un compagno nella cella, affamato come lui, smarrito come lui.»
Muna emise un leggero gemito:
– «Non ha avuto paura? Un uomo in quella condizione, un mostro sopra di lui, quell’immagine che ha visto, quel suono che ancora gli rimbomba nelle orecchie: ‘Pratichiamo l’arte della prevenzione, Numan.’ Non distrugge questo un uomo?»
Il padre rispose senza alzare la voce:
– «Forse sì. Forse no. Numan è uno di quelli che, quando vengono spezzati, si rialzano più lucidi… non più fragili.»
Muna prese un piccolo boccone e lo rimise nel piatto:
– «Ho paura, papà… tutto questo sembra l’inizio di una tempesta, e non sappiamo dove ci porterà.»
– «La tempesta è già arrivata, Muna, e noi siamo nel suo cuore. Ma alcune persone, come Numan, non aspettano che le nuvole si diradino… creano una scintilla di sogno nel buio della tempesta.»
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